Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

martedì 19 luglio 2011

Una visita in cantina per controllare lo stato di decomposizione del Cadavere




Un pezzetto da “Un cadavere in cantina” dopo l’autopsia:
Era notte. Il vento strapazzava i vasi farciti di fiori finti e terra arida e ogni tanto qualcosa volava via e andava a rincorrere i passanti con il bavero sollevato e gli occhi arrossati dalla polvere. I balconi cigolavano sinistramente sputacchiando qualche calcinaccio dai denti di ferro arrugginito, mentre sull’asfalto bagnato le buste della raccolta differenziata s’inseguivano tra i bidoni, strusciandosi tra loro e infilandosi tra le macchine parcheggiate. I bidoni sbatacchiavano le loro fauci aperte, alcuni avevano la pancia piena, altri erano stati liberati nel pomeriggio dal loro maleodorante contenuto da due operatori ecologici dalla panza dilatata e gli occhi liquidi. Nella strada, i ragazzini, tiravano ancora qualche petardo che, svogliatamente, ritornava indietro tra i piedi per morire senza un botto, nel vortice di foglie e polvere. Qualcuno di loro rivoltava gli specchietti delle auto in sosta tanto per ingannare il tempo, qualcun altro si fumacchiava maldestramente una sigaretta, altri ancora cercavano di accompagnare i petardi sempre più pigri verso la finestra dei Tuppons, ma zia Grazietta era riuscita a sigillarla in tempo. La vecchia aveva previsto la mossa degli assedianti e le piccole bombe andarono a infrangersi sulle tapparelle zozze, senza emettere troppo rumore e senza causare troppo danno, dato che lo strato di sporco e il vento famelico si mangiarono gran parte della polvere pirica. Zia Grazietta grugnì qualche imprecazione.  Poi stappò una bottiglia dei suoi solfiti preferiti affogati nel liquido scuro e ne versò una generosa razione in un grosso bicchiere sbeccato in più punti. Ne trangugiò una buona parte senza preoccuparsi di riprendere fiato o di gustarne il sapore.
Dall’altra parte del vetro le foglie planavano come caccia stealth sulle teste dei ragazzini e degli altri passanti infreddoliti. I cani trotterellavano nervosamente dimenando le code più o meno pelose, più o meno presenti e digrignando i denti più o meno cariati, più o meno affilati. Rodolfo e Tonino discutevano animatamente in merito alla crisi in medio oriente, ma anche in merito alle intemperie nel mondo esterno e sulla qualità dei vini di zia Grazietta. Intanto le nuvole gonfiavano le guance e sputavano aria ghiacciata e secchiate d'acqua ancora più gelida e tagliente, i lampioni si prostravano ossequiosi, la lamiera delle auto cigolava sinistramente un po' per il vento, un po' a causa dei colpi dei ragazzini ringalluzziti da bevande colorate e sostanze sospette.
    La notte faceva il suo corso. 
Tonino tirò sù il pantalone del pigiama oltre ogni possibilità dell'anatomia umana, e i testicoli non ne gioirono più di tanto, poi s’infilò ai piedi le ciabatte da mare e una canottiera modello saldi anni 50 e si apprestò ad andare a buttare la mondezza, differenziata con una certa approssimazione, lo accompagnarono un giubbotto imbottito e le imprecazioni di zia Grazietta.
 L'ingegnere parcheggiò la sua macchina, con i sedili ancora ricoperti con il cellophane, facendo gimkana tra le buste gialle della plastica e quelle grigie del secco. Tonino invece doveva districarsi tra le buste che ancora alloggiavano sui bidoni a bocca aperta e su quelli sazi con i denti serrati, le sue ciabatte affondavano nelle pozzanghere gelide senza grossi effetti collaterali, anzi i piedi scuri ne traevano un certo giovamento per effetto della liberazione dallo strato di cellule morte e altri antagonisti del sapone. Salutò le varie buste con affetto dato che ne era legato affettivamente per vari motivi, sia a esse che, soprattutto, al contenuto e ai ricordi collegati: tante storie e tanti momenti piacevoli che spiccavano nel grigiore delle giornate altrimenti indistinguibili le une dalle altre.
I ragazzini, intanto, accennavano una murra improvvisata e la lingua di zia Grazietta cominciava a legarsi e a inciampare tra le virgole del discorso. Rodolfo si lisciava i capelli con l'ausilio di un po' di lucido da scarpe davanti a uno specchio divorato dalla ruggine e dai segni del tempo, mentre una presenza gli si avvicinava alle spalle, in silenzio.
L'altro, l'Innominabile mugugnava e balbettava qualche imprecazione sotto la luce fioca di una lampada incrostata e Rodolfo, nonostante la Presenza dietro le spalle, gli rispondeva per le rime, ovvero parlando della crisi finanziaria di Dubai e delle problematiche inerenti alla carenza di vaccini per AH1N1. La Presenza annuì con un cenno del capo tra le ombre, il discorso lo coinvolgeva emotivamente, si commosse e si allontanò dal Rodolfo proprio mentre rientrava Tonino, il quale aveva una busta vuota tra le dita e qualche residuo di buccia di mela sul giubbotto.
- Con chi stai parlando? - chiese Tonino rivolgendosi a Rodolfo e anche all'ombra che gli scivolò accanto con un sibilo.
- Con nessuno - rispose Rodolfo, masticando una gomma americana che non aveva. - Dove sei stato? - disse, sputando la gomma. - Non vedi che tempo che fa? 
- Non guardo la tv da un bel pezzo - rispose Tonino.
- ??!! - dissero le pupille sgranate ai lati del naso di Rodolfo.
Zia Grazietta, intanto, aveva terminato la lotta corpo a corpo con l'etanolo e i suoi parenti e ne era uscita sconfitta, senza alcun’attenuante, e la lingua le si era attorcigliata intorno alla dentiera senza grandi possibilità di libertà a breve termine. Si asciugò le appendici degli arti superiori sul grembiule sudicio mentre qualcuno suonò alla porta.
- Chi è ? - urlò zia Grazietta dentro la cornetta del telefono. - Chi èèè???  
Il telefono tacque.
- Chi parla, insomma! - intervenne Rodolfo con voce ferma e autoritaria, assestandosi i capelli oleosi con una mano, mentre con l'altra rimuoveva le bucce di mela dal giubbotto di Tonino.
Il campanello venne nuovamente invitato a strillare da una mano dietro la porta, accompagnato stavolta da alcune imprecazioni.
- E' la porta! Imbecilli! - esclamò zia Grazietta, allungando un sonoro ceffone sulla nuca brufolosa di Rodolfo.
Qualcuno aprì la porta. Entrò ziu John accompagnato da un turbinio di foglie secche e cartacce varie.
- Affanculo! - esclamò, senza lasciare alcuna speranza per un eventuale appello.
Alcuni petardi inesplosi accompagnarono il suo ingresso, tuffandosi nella stanza dalla finestra spalancata a causa della corrente d'aria prodotta dall'ingresso di ziu John.
I ragazzini nella strada sghignazzarono soddisfatti, nonostante l'assenza del botto e si presero a cazzotti amichevolmente per festeggiare l'accaduto.
- Affanculo anche a voi! - urlò ziu John.
Zia Grazietta versò una generosa razione di vino in un bicchiere incrostato e scheggiato sul bordo. Ziu John lo afferrò tra le dita unte e se lo avvicinò alla bocca, quando l'Innominabile lo urtò con un braccio durante uno dei suoi attacchi di vibrazione generalizzata. Ziu John, a causa del colpo, mancò l'obbiettivo e il vino schivò la sua faccia per andare a tuffarsi sulla faccia sorridente di Rodolfo, il quale stava sognando a occhi aperti com’era solito fare nei rari casi di silenzio nella casa. Il liquido rosso gli colava in vari rivoli sul faccione inebetito trasformandolo in una degna comparsa per un film splatter. Tonino lo guardò perplesso, non capendo bene cosa fosse successo. Gli si avvicinò a un paio di centimetri dal naso per accertarsi che si trattasse realmente di suo fratello e lo annusò.
- Si. E' lui - esclamò soddisfatto. - Per un attimo mi è sembrato di aver visto uno zombie. 
Zia Grazietta partì di destro e atterrò il suo figlio prediletto.
- Ehi mammaaa! Echecazzofai! - urlò Rodolfo tra i rivoli rossi.
- Mamma..Mamma.. - grugnì l'Innominabile, girovagando per la stanza con la testa tra le mani.
Fuori, intanto, il vento ringhiava ferocemente e non aveva alcuna pietà né dei panni stesi, né dei passanti sottostanti. Qualche lenzuolo si avvinghiava sensualmente sulle auto, incurante del fatto che fossero in movimento o no. Una macchina si schiantò su un muro; un’altra s’infilò tra due pali della luce, dandosi un bel ritocco all'aerodinamica. Una mutanda volò alla velocità della luce, inseguita da due mollette e atterrò dentro un piatto di minestra, dopo aver varcato la soglia di una finestra che soffriva di malocclusione. Cominciò in questo modo un fiorente scambio commerciale tra i vari balconi della zona. Qualcuno gradì i doni, qualcun altro non apprezzò affatto. Molte cose, poi, si persero nella bufera e ancora adesso vagano in cerca di un padrone.
La notte si estinse e con essa anche il vento.
Il sole si svegliò e fece capolino pigramente tra le nubi corpulente, lanciando qua e là qualche raggio in avanscoperta. I gatti spellacchiati e rognosi che popolavano il giardino saltellavano allegramente in attesa degli avanzi di cibo che zia Grazietta, probabilmente, stava già preparando. Il loro unico problema erano i piccioni pidocchiosi che si moltiplicavano come conigli e spesso prendevano il sopravvento, utilizzando armi chimiche e pidocchi paracadutisti. Questi ultimi erano i più infidi in quanto era decisamente difficile riuscire a individuarli in tempo utile per evitare di ritrovarseli sulla testa, pronti a trapanare e a piazzare le cariche esplosive; Le armi chimiche, invece erano una prerogativa di un solo piccione: tale Arturo, capace di fare esplodere dei grossi peti rumorosi e dall'odore terrificante che sganciava a pochi centimetri dalle capocce dei gatti. Si diffondevano come nubi tossiche lente, dense, inesorabili. I gatti ne erano terrorizzati e non avevano ancora trovato una contromossa adeguata.
Intanto il cibo arrivò, come previsto. Non era granché, ma i gatti vi si buttarono sopra a capofitto come al solito. Erano sin troppo prevedibili e i piccioni scatenarono l'inferno.
- Arturiuuus! - urlarono all'unisono.
- Ispanico! Ispanico! - risposero i gatti.
E Gled Magic Cat arrivò. Cominciò a menare le mani buttando giù decine di uccellacci puzzolenti. Si deterse l'elmo dal guano maleodorante con il dorso della zampa mentre gli altri continuavano a incitarlo: - Ispanico! Ispanico! 
Lo scontro fu epico.
I ratti di passaggio tiravano le redini alle mute di blatte che trainavano le loro slitte e si parcheggiavano sul ciglio della strada a godersi lo spettacolo.
I ragazzini che vegetavano per strada accendevano i loro iPod e iPhone e mettevano in funzione la mitica applicazione iPuzzons che permetteva di misurare il grado d’intensità del fetore. I valori ottenuti erano discordanti: un ragazzino aveva ottenuto centodieci; un altro novantatre; una giovane dai facilissimi costumi ben trecentosette.
Si aprì un dibattito in tal proposito, ma non si arrivò a una conclusione plausibile. Alcuni aggiornarono l'applicazione via 3G, l'obeso dai riccioli unti resettò il telefono. E si avvicinarono.
Nessuno di loro aveva tenuto conto del fatto che Arturo non aveva ancora colpito e il suo intervento fu devastante: molti gatti si suicidarono buttandosi sotto le macchine; alcuni ragazzini perirono a causa dei colpi di gladio e colpi di catapulta; altri morirono in preda a crisi d'asma e shock anafillatici vari.
Il fetore era tremendo.
L'applicazione iPuzzons andò in tilt su quasi tutti gli apparecchi elettronici.
Sul terreno giacevano inerti molti gatti, diversi ragazzini con i capelli scolpiti con il gel, centinaia di piccioni, blatte di ogni taglia, topi e vecchiette di passaggio.
- Arturiuuus!! - gridarono un paio di piccioni bruciacchiati: avevano vinto. Ancora una volta Arturo si era rivelato un'arma infallibile. Il giorno dopo i gatti superstiti si riunirono in seduta straordinaria per studiare una controffensiva adeguata. Ma questa è un'altra storia.
Il vento aveva smesso d’importunare le cose e gli esseri viventi e ritornò tra le montagne a godersi il meritato riposo. Era nata una bella giornata di sole e i Tuppons si apprestavano a vegetare dentro i loro ammassi di molecole maleodoranti.
- Grazietta! - urlò ziu John. - Ma quanti giorni ci vogliono per avere un caffè? Devo fare la domanda in carta bollata o è sufficiente in carta semplice con firma autenticata?
- Un attimo! - grugnì zia Grazietta, mentre era impegnata a sciacquare i testicoli dell'Innominabile nel lavandino di cucina. L'Innominabile non era in grado di occuparsi della propria igiene personale, anzi non era in grado e basta. 
- Nara! Grazietta - insistette ziu John. - Se vengo li te lo faccio uscire dall'orifizio anale il caffè! 
- Un attimo ho detto! - rispose zia Grazietta, vomitando catarro sui testicoli insaponati dell'Innominabile.
- Se vengo lì ti faccio ingoiare la dentiera a calci! - disse ziu John.
Intanto gli altri fratelli Tuppons si risvegliavano dal torpore del sonno, stiracchiando le membra indolenzite e scorreggiando beatamente.
- Buongiorno - disse Rodolfo ripulendosi dalla bava schiumosa che gli colava dagli angoli della bocca. Proprio mentre uno scarpone di ziu John raggiungeva il grugno di zia Grazietta facendole saltare in aria la protesi dentaria. La vecchia, per evitare di cascare a terra, si aggrappò saldamente allo scroto del figlio stirandoglielo oltre i confini della realtà come neanche i fantastici quattro avrebbero potuto fare.
L'Innominabile gridò con tutto il fiato che aveva in gola scalciando per liberarsi dalla morsa. Colpì l'obiettivo più volte sino a quando la madre, con qualche costola incrinata, mollò la presa e si lasciò cadere sulla lanedda, ributtante ma soffice, del pavimento.
- Bru..tta stregaaccia zo..zza - balbettò L'Innominabile e assestò un altro calcio sull'adipe della donna. Mentre i suoi testicoli riacquistavano la posizione originaria.
Ziu John, intanto, imprecava e bestemmiava come un turco, infierendo con gli scarponi sulla dentiera inerme.
Suonò il campanello.
Era Sofia. La figlia femmina dei Tuppons. L'unica autorizzata ad avere una vita sociale al di fuori della tribù. L'unica, oltre a ziu John, in grado di guidare un'automobile e di spostarsi senza necessità di adeguato accompagnamento o di pulmino giallo con autista autorizzato.
Era una delle donne più brutte del pianeta terra.
Zia Grazietta si rialzò faticosamente tenendosi un fianco con una mano. Cercò con gli occhi la dentiera e con il piede lo stinco dell'Innominabile. Lo trovò.
- Ahia! - urlò il proprietario dello stinco. - Maa...aa sei maaat...ta!
- Senti chi parla! - rispose la vecchia. - Imbecille senza cervello.
- Mamma! - intervenne Sofia. - Cos’è successo? Ma mentre dava fiato ai suoi polmoni mise il piede sulla dentiera spalancata a mo’ di tagliola. La trappola scattò sull'appendice dell'arto inferiore della donna serrando i canini sulla carne.
- Sofia - disse ziu John. - Possibile che sei sempre la solita imbranata rincoglionita. 
Si accese un sigaro.
Sbuffò come una locomotiva a vapore.
- Muoviamoci con questo caffè - grugnì in mezzo al fumo. - Oh Grazietta! Ce la fai o devo chiamare i caschi blu dell’Onu.
Intanto Sofia riuscì a liberarsi dalla dentiera famelica scagliandola con un calcio per aria. Dopo un paio di piroette la protesi atterrò sul tavolo sotto gli occhi di ziu John, al posto del caffè.
- Non è possibile - ziu John scosse il capo. Se non fosse che erano poggiate sul tavolo le braccia gli sarebbero cadute per terra. Le rughe gli si chiusero come saracinesche sugli occhi.
- Ma cosa ho fatto di male - esclamò sotto le palpebre. - Per meritarmi tutta questa sofferenza. Con tutto lo spazio che c'è nel mondo dovevi proprio andare a finire a casa mia e pensare che c'è un sacco di posto in Africa o in Albania. Ci sono interi villaggi completamente disabitati dove non c'è più nessuno: sono tutti qui! Anche i sindaci e tutti i consiglieri. Tu staresti benissimo in mezzo alla savana, tra i leoni e gli elefanti. 
Grazietta lanciò un'occhiataccia al marito e si riprese la dentiera con un gesto fulmineo della mano. Veloce e impercettibile come la lingua di un camaleonte. Si mise a posto l'attrezzatura senza preoccuparsi di sciacquarla dalla sporcizia accumulata durante la transumanza nel Serengeti. Sputò via un po' di peli e altre zozzerie e riprese a occuparsi delle sue mansioni ai fornelli. 
Il vecchio borbottò qualcosa d’incomprensibile e se andò in un altra stanza.
Fuori, intanto, accadevano cose turche: una banda di ferocissimi ratti della Romania aveva invaso il giardino e stava divorando ogni forma di vita che si trovava avanti. Il capo branco, tale Eusebio, era un grosso esemplare anziano con lunghi, radi peli irti e setosi. Si muoveva zoppicando e ringhiando sopra le ossa dei cadaveri e la terra bruciata e, ogni tanto, lanciava qualche occhiata maligna verso i suoi discepoli per verificare se erano abbastanza crudeli e sanguinari. I suoi lunghi denti torti e sporchi cozzavano tra loro producendo un suono impressionante come quello dei gladio sugli scudi nelle centurie romane.
I gatti si ritirarono prudentemente per evitare uno scontro che poteva essere fatale dato che ancora stavano ricomponendo le salme dei cadaveri dello scontro con i piccioni e i loro alleati. I ratti avanzavano e tutti gli altri animali si facevano da parte tra i sogghigni di Eusebio e dei suoi fedeli. Alcuni di loro si pulivano i denti utilizzando le falangi e le ossa più sottili dei morti; Altri rincorrevano le porno mosche che sorvolavano gli ammassi di feci e i cadaveri in putrefazione. Le mosche disinibite si univano carnalmente in lunghi trenini a incastro come le costruzioni della Lego e, ogni tanto, perdevano la rotta. In quei momenti d’indecisione dovuti alla foga dell’amplesso i ratti riuscivano ad acchiapparne qualche gruppetto e se ne cibavano golosamente.
Probabilmente avevano un buon sapore, ma Eusebio non gradiva e, quando notava qualche ala di mosca spuntare dai denti marci dei suoi ferocissimi Unni, s’incazzava proprio come un topo rumeno ed era capace d’infilare tutta la zampa giù per l’esofago del malcapitato per estrarre i trenini di mosche o quello che ne restava. Spesso riusciva a estrarre qualche gruppetto ancora integro e, qualche volta i prelibati bocconcini riuscivano anche a riprendere il volo e, come frecce tricolori dei poveri, schizzavano via nel cielo lasciando una bella scia di succhi gastrici e altri liquami non meglio identificati.
La corsa dei topi proseguiva tra i nani da giardino ricoperti di muschio e muffe assortite e le rade piante rinsecchite. Non incontravano nessuna resistenza e ciò li rattristò parecchio. Eusebio, di tanto in tanto, volgeva lo sguardo alle sue spalle con la speranza di poter scorgere qualche pattuglia nemica ben armata con la quale poter ingaggiare una bella battaglia. Ma non si vide nessuno e la banda continuò la corsa solitaria verso la meta che, oramai, nessuno rammentava.
Ziu John si affacciò alla finestra.
- Ancora questi topi di merda! 
E lanciò una generosa secchiata di varechina sulle orde fameliche di ratti rumeni. Non se ne salvò neanche uno. Neppure le mosche che avevano nello stomaco.
Eusebio si rotolò nella terra per aver un minimo di sollievo; la cotenna spessa, reduce di mille battaglie, bruciava con un odore acre e da essa si levavano lunghe colonne di fumo nero come neanche in Vaticano si era mai visto.
Il capo dei ratti tirò le cuoia, ma nessuno lo rimpianse, d’altronde morto un capo se ne fa sempre un altro. E i topi lo sapevano bene.
Ziu John tirò un sospiro di sollievo.
- Maledetti topi di merda! 
Zia Grazietta tirò su una bella boccata di sigaro e raggiunse il marito nella stanza. Poco dopo entrarono anche gli altri Tuppons: seguivano la madre in ordine sparso e senza nessun apparente motivo. Tutta colpa di Konrad Lorenz e del suo maledetto imprinting.
Il vecchio mugugnò qualcosa e assestò un sonoro ceffone sulla guancia rugosa della moglie.
- Ti ho detto che in questa casa posso fumare solo io - disse.
La moglie raccolse il sigaro da terra, mentre la tribù dei Tuppons assisteva in religioso silenzio.
In quel momento si udì uno sparo provenire dal basso, in direzione delle cantine.
L’Innominabile mugugnò qualcosa.
Sofia si portò la mano alla bocca.
Tonino rimase a bocca aperta e attese l’intervento dell’altra mano di sua sorella.
Rodolfo non fece nulla.
Il vecchio spostò i familiari con un ampio gesto delle braccia e scese verso le cantine. Si accorse subito che c’era qualcosa di strano: scendendo gli scalini aveva, come al solito, provocato lo spostamento del rinforzo di metallo nel secondo gradino con relativo rumore a seguire. Un estraneo che entra nella palazzina non lo può sapere e, ovviamente, provoca lo stesso rumore; un inquilino, invece, lo sa benissimo e, allungando la falcata, può agevolmente scavalcare lo scalino rumoroso ed era proprio ciò che era successo. Prima dello sparo non c’era stato il clangore del metallo arrugginito.
Proseguì qualche metro inoltrandosi nel corridoio che porta agli ingressi delle cantine e vide nella penombra un cadavere riverso per terra. Aveva la faccia spalmata sul pavimento in una pozza di sangue.
- Grazietta! - urlò ziu John. - Qua c’è un morto! 
La tribù seguì il padre nel corridoio della cantine. L’Innominabile inveì contro il padre non riuscendo a capire bene cosa fosse successo. Rodolfo si mise a parlare del clima e di altri argomenti decisamente poco appropriati alle circostanze: nessuno lo degnò di attenzione ma, nessuno, lo obbligò al silenzio. Tonino approfittò della distrazione dei genitori per scolarsi una bottiglia di birra tutta d’un fiato. Sofia gridò:
- Ahhh!..Chiamate la polizia! 
- E chiamala tu, imbecille! - intervenne il padre.
- Chi è? - chiese Rodolfo.
- Non lo so! - urlò Tonino. - Perché non lo chiedi all’assassino? 
- Ma se non so chi è il colpevole, come faccio a chiederglielo - rispose Rodolfo.
- E’ che sei troppo tonto - disse Tonino, tra un rutto e l’altro. - Altrimenti direi che sei tu l’assassino criminale. La faccia ce l’hai.
- No - disse Rodolfo. - Non sono io l’assassino e, se ti ricordi, eravamo insieme tutto il pomeriggio.
- Qualcuno giri il morto! - esclamò Sofia.
- Perché? - chiesero all’unisono i due fratelli.
- Per vedere chi diavolo è? - rispose lei.
- Ma tu non dovevi chiamare la polizia? - intervenne il padre, rivolgendosi alla figlia.
- Vediamo prima chi è - disse Sofia.
- Ma sei matta? - esclamò zia Grazietta. - Non si toccano i cadaveri. Potresti inquinare le prove o lasciare le tue impronte digitali.
- Ammesso che non ci siano già, le sue impronte - disse a denti stretti Tonino.
- Brutto stronzo! - urlò Sofia, avventandosi verso il fratello con i pugni serrati.
Un gancio destro di discreta potenza atterrò Tonino. Il quale rotolò giù dagli scalini e si accasciò proprio sul morto.
- Ecco - disse Sofia. - Ora ci sono le tue impronte. Idiota.
Il giovane si rialzò, si ripulì alla bene meglio da sporco e sangue e uscì di scena borbottando e maledicendo un po’ tutti, morto compreso.
- Adesso hai anche il suo dienne-a addosso - gli urlò dietro la sorella.
- Ma che è questo dienne-a? - chiese il Rodolfo.
- Zitto imbecille! - disse ziu John.
Il vecchio non sapeva che pesci pigliare. Alla vecchia, invece, il pesce non piaceva proprio. La Sofia, la bella della casa, meditava ulteriori atti di vendetta verso il fratello sistemandosi i capelli. L’altro: Rodolfo, com’era solito fare, non pensava proprio e si rigirava dentro il suo maglione rosso. L’Innominabile faceva parte di una razza a se stante, assolutamente priva di intelletto, e si limitava a dondolare e a scuotere la testa. In attesa di qualche input dall’ambiente al di fuori della sua scatola cranica.
- Insomma - disse il vecchio, sconsolato. - Mi tocca fare sempre tutto a me. Possibile che nessuno sia in grado di fare una telefonata.
- Vado io a telefonare - disse Rodolfo, tirando fuori le mani dalle enormi maniche rosse.
Il vecchio lo seguì con lo sguardo senza proferire parola e, siccome somatizzava facilmente gli venne un’orchite di discreta entità.
- Chissà a chi diavolo telefonerà adesso - disse, ancora più sconsolato. - Rodolfoooo! - urlò, ma il figlio probabilmente non era connesso e, infatti, lo udirono balbettare qualcosa al telefono.
- Grazietta - disse ziu John. - Vai a vedere che cazzo sta combinando quell’imbecille!
La donna si ripulì le mani sul grembiule che aveva saldato addosso da tempo immemorabile e risalì le scale. Tirò via dalle mani del figlio la cornetta:
- Pronto..Pronto.. - gracidava una voce dall’altro capo.
- Chi parla? - chiese zia Grazietta.
- Come: chi parla? - rispose una voce di donna. - Siete voi che avete chiamato!
- Oh, mi scusi - disse la vecchia e scalciò lo stinco del figlio con un vigore degno di un terzino della nazionale tedesca.
- Non fa niente - ribatté la voce dalla cornetta. - Ma il telegramma a chi lo dobbiamo accreditare?
- Quale telegramma? - chiese zia Grazietta, fulminando Rodolfo con lo sguardo.
- Il telegramma che mi ha dettato il signore poco fa - rispose la voce.
- Ma, scusi - insistette la vecchia. - Che numero abbiamo fatto?
- Quello delle Poste ovviamente!  
La voce di donna lasciò trapelare una leggera forma d’incazzatura e la cornetta si abbassò con uno schianto nel timpano di zia Grazietta.
- Le posteee!!- urlò.
Prese una padella dal tavolo, l’afferrò saldamente con entrambe le mani per il manico, e la stampò sulla fronte di Rodolfo.
- Abbandona questo corpo! - riurlò. - Satana!!
Il figlio cascò in terra come una mela di Newton senza emettere un suono. L’altro figlio, Tonino, lo scavalcò con le gambette bianche e nude e varcò la soglia della porta. Come ogni tanto soleva fare, si era avvolto in un enorme piumino invernale senza fare troppo caso al fatto che era sprovvisto di pantaloni e, ai piedi, portava le sue inseparabili ciabatte da mare. Uscì fuori. Aveva ripreso a piovere, ma era talmente incazzato che non ci fece caso. Affondò le braccia nei tasconi del giubbotto e si allontanò a grandi falcate.
Lo seguivano gli sguardi dei passanti alquanto perplessi. Ma lui ciabattava sonoramente per la sua strada, incurante degli sguardi e delle risate più o meno sotto i baffi, più o meno fragorose.
Liberi della presenza destabilizzante di Tonino, i Tuppons si riorganizzarono nella cucina di casa e si misero a studiare un piano di azione. O meglio, ziu John si mise a studiare un piano di azione. Gli altri attendevano trepidanti una qualche soluzione.
- Dobbiamo decidere in fretta - disse il capofamiglia. - Altrimenti le Talebane ci possono denunciare all’Inquisizione...


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