Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

venerdì 25 aprile 2014

Vivisezione: La storia di Hans


Faceva freddo, molto freddo, nonostante la massa dei suoi simili accalcati uno sopra l’altro. Il metallo era talmente gelido e bagnato per l’umidità che non si poteva neanche toccare, ma la cosa che turbava di più il cervello del giovane Hans era il pavimento sporco di feci, vomito, urina e resti di corpi in decomposizione. Oltretutto questo pavimento si muoveva con scossoni tremendi e improvvisi e di conseguenza Hans e gli altri più piccoli si ritrovavano sepolti sotto i più grandi. In molti urlavano, qualcuno bisticciava e quasi tutti avevano paura, anche se non tutti lo davano a vedere; un po’ per orgoglio, un po’ per paura di avere paura. Molte madri gridavano il nome dei propri figli, ma nessuna di loro ricevette una risposta, sino a quando anche le urla e le energie andarono scemando.
Hans non sapeva più niente dei suoi genitori, della sua casa, del prato verde dove aveva giocato felice sino a pochi giorni prima. L’unica cosa che gli era rimasta era una nocciola che teneva stretta nel pugno per timore che qualcuno gliela rubasse. Era l’unica cosa che gli era rimasta. Non la doveva perdere per nessun motivo, anche quando la calca si faceva pesante e gli urti facevano rotolare gli altri per terra, lui la teneva stretta. Hans era giovane e forte, forse troppo giovane, ma sicuramente forte, e riuscì a evitare di essere schiacciato tante volte. Dentro quella cosa che non riusciva a definire era buio, tanto buio. In alto, da una feritoia, filtrava solo una sottile striscia di luce; troppo flebile per permettergli di vedere al di là dei corpi che aveva più vicino.
Ogni tanto, quando le onde provocate dagli scossoni lo facevano avvicinare alle pareti, riusciva a intravedere le grandi colonne di metallo che formavano le pareti. Cercò di evitarne il contatto perché sapeva che erano gelide e ci riuscì seguendo la corrente che sospingeva gli altri.
I sobbalzi e i ruzzoloni dei più vecchi proseguirono a lungo, mentre la fame e la sete dilagavano con grande velocità. Hans schivò miracolosamente un flutto di vomito, ma la cosa non lo turbò più di tanto, o almeno non tanto quanto lo sguardo terrorizzato di un vecchio che gli si gettò sopra per la disperazione. Gli afferrò i polsi e glieli strinse con la tutta la forza che gli restava.
- Aiuto! - Riuscì a bisbigliare il vecchio prima di esalare l’ultimo respiro.
Hans non si oppose alla stretta e attese che il corpo senza vita scivolasse ai suoi piedi. Non poteva fare nulla per lui e per quegli occhi iniettati di sangue che gli si infilarono dentro come due lame incandescenti.
In quel momento pensò che non avrebbe mai scordato quello sguardo e l’odore nauseante che proveniva da quella bocca, ma non sapeva ancora che questo era nulla in confronto all’orrore che l’aspettava.
Pochi istanti dopo un rumore stridulo annunciò la fine dei sobbalzi e quindi subentrò il silenzio che conquistò ogni spazio vitale. D’improvviso smisero le urla, i pianti e i singhiozzi. Rimasero tutti immobili. I vivi sopra i morti e gli agonizzanti. In molti trattennero il fiato; i più piccoli cercarono rifugio dietro agli adulti. Ma nessuno di questi, per quanto grandi e grossi, era in grado di affrontare l’ignoto e il pesante silenzio che gravava su di loro.
Si strinsero tutti verso un angolo e attesero, con tutti i sensi all’erta, pronti a captare ogni piccola vibrazione, rumore o odore nuovo.
Certo, non era facile con il tanfo immondo che si levava dai cadaveri e dalle pozze di materiale biologico che si trovavano ai loro piedi, ma l’istinto aveva sempre la meglio sulle disgrazie, o se non altro ci provava.
Ma un frastuono infernale interruppe la concentrazione del gruppo.
Dopo qualche attimo, mentre la tensione cresceva e la paura faceva muovere gli arti come foglie sotto una folata di vento, una luce accecante inondò l’ambiente.
Poi arrivarono le voci incomprensibili e i passi pesanti di esseri giganteschi. Uno di loro afferrò la prima gabbia, si lamentò per l’odore e la lanciò tra le braccia di un altro.
I topi urlarono con quanto fiato avevano in gola. Qualcuno di loro stramazzò al suolo per la paura. Hans si aggrappò con tutta la forza a una sbarra. Chiuse gli occhi e attese a denti stretti il momento dell’atterraggio.
Poi venne in turno della gabbia delle cavie che correvano in preda al terrore e sbattevano la testa contro le sbarre per la disperazione. Le loro grida disperate non fecero altro che innervosire ulteriormente uno dei giganti, il quale lanciò con forza la gabbia direttamente sul cassone del camion, saltando un passaggio nella catena del trasloco. Anche tra loro ci furono delle perdite.
La prima gabbia dei conigli ebbe maggior fortuna in quanto venne tirata su da un gigante meno nervoso.
Agli occupanti della seconda gabbia dei conigli non andò così bene e più di uno riportò qualche ferita.
Nel giro di pochi minuti si ritrovarono tutti sopra il nuovo mezzo di trasporto, con gli occhi feriti dalla luce del sole, senza cibo né acqua. Ma almeno potevano respirare aria pulita.

- Ma dove ci portano?
- Qualcuno ha visto mio figlio? Aiutatemi vi prego.
- Mamma, ho paura.
- Verrà il tempo in cui tutto questo avrà fine. Verrà il tempo in cui il male si ritorcerà contro i malvagi e gli oppressori…
- Dove sono i miei occhiali. Qualcuno ha visto i miei occhiali?

Hans, invece, non aveva la forza di dire nulla. Guardava gli alberi, i fiori e i cespugli che gli sfrecciavano accanto come un ombra indefinita. Cercava di coglierne il profumo e la forma, per non dimenticare.
Era di assoluta importanza non dimenticare e…ricordarsi di non dimenticare.
La nocciola stretta nel pugno. 
La gola arsa dalla sete. 
Le lacrime che volavano nel vento.
E due cadaveri ai suoi piedi.
Eppure doveva sforzarsi di pensare e ripensare, per non perdersi per sempre.

Poi il camion si fermò.

- Dove siamo?
- Ehi, ma cosa ci vogliono fare?
- Non lo so, ma non mi piace.

Un grande cancello si aprì e accolse il camion con il suo carico in un grande cortile polveroso.
Altri giganti si avvicinavano con aria minacciosa.
Hans strinse forte la sua nocciola. Non l’avrebbe mai ceduta a nessuno. A costo della vita.

Le gabbie vennero scaricate a terra. Stavolta, però, con maggiore riguardo e nessun altro riportò danni fisici in questo passaggio.
L’operazione avvenne sotto lo sguardo attento di un gigante un po’ diverso dagli altri: aveva un lungo vestito bianco, una lunga barba bianca e una cartella tra le braccia. Apparentemente non aveva l’aria minacciosa degli altri, ma il suo sguardo nascondeva qualcosa, qualcosa di sinistro e indefinibile che non si manifestava chiaramente, ma c’era. Ben nascosto dietro un bonario sorriso e dietro il riflesso degli occhiali.

Dentro le gabbie ritornò il silenzio assoluto. I più giovani tremavano e i più anziani si contorcevano per gli spasmi della fame; gli stomaci vuoti si lamentavano, le bocche aride invece non ne avevano più la forza.

L’uomo con il camice bianco scostò gli occhiali, avvicinò il suo testone alla prima gabbia e roteò gli occhi in tutte le direzioni. Spinse lo sguardo tra le masse di peli e ossa tremolanti, tra i corpi senza vita e quelli agonizzanti che si dimenavano sul fondo. Incrociò lo sguardo di Hans; lo trapassò senza pietà e andò oltre. 
Poi si alzò. Rimise gli occhiali sul naso e si mise a scrivere frettolosamente sulla cartella. Subito dopo urlò come una belva in direzione degli addetti al trasporto, che attendevano nei pressi del camion. La discussione si protrasse a lungo con un contorno di gesti, grida e qualche insulto.
L’uomo con il camice si riavvicinò alla gabbia, aprì lo sportello. I topolini si ammassarono uno sopra l’altro nell’angolo più distante da quella mano; urlavano e piangevano proprio come topi in gabbia. Il gigante, invece, gli ignorò e dedicò le sue attenzioni a uno dei tanti cadaveri sparsi nel fondo. Lo prese per la coda e lo tirò fuori. Lo rigirò nella mano poi la lanciò in direzione della fazione rivale.

Loro, dentro le gabbie, non capivano cosa stesse dicendo, ma per un attimo, solo per un attimo, si schierarono dalla parte dell’uomo in camice bianco. In quell’istante fugace ebbero l’impressione che il gigante barbuto stesse protestando per il trattamento ricevuto da topi, cavie e conigli durante il trasporto.

Mentre questi pensieri sfumavano e le voci dei giganti si riportarono a un tono più pacato, le gabbie vennero tirate su e condotte all’interno di un edificio.
Qui attraversarono un lungo corridoio bianco e silenzioso.

- Che posto è?
- Niente di buono, credimi.
- Ho paura!
- Ma no. Vedrai che qui staremo benone. Vedrai.

Si aprì un pesante cancello blindato e vennero fuori urla, guaiti, pianti e un fortissimo odore di disinfettante.
Le luci al neon erano accecanti. Gli occhi di Hans non sopportavano tutto quel bagliore, gli facevano male. Chiuse le palpebre per un attimo e quando le riaprì si ritrovò fuori dalla gabbia, sopra un tavolo.
Un gigante con il rossetto lo stava palpando, misurando e ispezionando. Lui lasciò fare anche perché non aveva altra scelta. Una volta terminata la visita medica venne sistemato in una cella più confortevole rispetto a quella del carro merci usato per la deportazione. Qui trovò finalmente acqua e cibo.
Bevve e mangiò a sazietà e solo quando ebbe finito si rese conto di non essere solo nella nuova gabbia. In un angolo c’era un altro topo, riverso per terra ma ancora vivo. Aveva il costato destro completamente spolpato con le ossa scoperte. Da questa ferita fuoriuscivano alcuni tubi trasparenti.
Hans si avvicinò e lo scosse con una mano sulla spalla. L’altro si girò. Gli mancava un occhio e non aveva più denti, ma era vivo.

- Cosa ti è successo?
L’altro mugugnò qualcosa di incomprensibile.
- Posso aiutarti?
- Si. Uccidimi.
- Come? Cosa?
- Ci ho già provato tante volte, ma non ci sono riuscito. Ti prego uccidimi…
- Eppure, pensavo…credevo che qui si stesse bene.
- Bene? Oh vedrai come si sta bene qui. Lo scoprirai presto.

Da fuori della gabbia giungevano rumori di attrezzi di metallo e un fastidioso risucchio. Ma la cosa che turbava maggiormente Hans era un lamento sommesso distante e quasi impercettibile, eppure così vicino.
Aveva terminato la scorta di parole e domande da porre al suo compagno di sventura.

- Non può essere. Io non ho fatto niente di male - pensò.

Poi afferrò il coraggio a piene mani e sporse il capo in mezzo alle sbarre. Si guardò intorno per accertarsi che nessun gigante si trovasse nei paraggi e infine volse lo sguardo verso il tavolo di metallo che si trovava a pochi metri da lui.
In un primo momento vide solo il liquido rosso che colava in un canale all’angolo destro del tavolo. Gli ci vollero alcuni secondi per riprendersi e guardare cosa succedeva sopra il tavolo. Sospirò e riuscì a farsi coraggio.
Hans era giovane e forte.
Nulla e nessuno potevano fargli paura.
Aveva la nocciola con sé, stretta nel suo pugno.
Aveva tutta una vita davanti.
Guardò.
Un conato di vomito gli fece risalire in bocca il cibo che aveva appena mangiato.
Poi scappò nell’angolino, vicino al suo compagno di cella.
E si rifiutò di guardare ancora.

Sul tavolo c’era un essere che non aveva mai visto. Era più grande di lui, era ricoperto da una folta pelliccia scura e aveva delle mani molto simili a quelle dei giganti. Ma, a differenza di loro, era legato con delle cinghie di cuoio. Sopra quel tavolo maledetto.
E soffriva.
Hans lo aveva visto incrociando il suo sguardo. Ne era sicuro.
Anche se quell’essere non poteva urlare a causa di un pezzo di nastro grigio che gli chiudeva la bocca, stava soffrendo.
La sua pancia era completamente aperta e dentro c’erano le mani di gomma dei giganti e tanti arnesi di metallo che entravano e uscivano.
Quegli occhi stavano urlando. Non aveva dubbi… Non ne aveva più.

- Perché?
Strinse il suo collega per le spalle.
- Dimmi perché fanno questo?
- Dicono che serve per curare gli uomini.
- Come gli uomini? Cosa sono gli uomini?
- Sono loro. Sono quelli che ci tengono rinchiusi qui dentro.
- Ma noi cosa c’entriamo? Noi non siamo uomini.
- Si, ma noi siamo piccoli. Loro sono forti, grandi e hanno i ferri. Possono fare tutto ciò che vogliono. Noi non contiamo niente…Siamo degli oggetti.
- Come oggetti? Non capisco.
- Lascia stare. Capirai, credimi.

Hans si rinchiuse nel silenzio. Avrebbe voluto essere lontano da lì, a correre in un prato verde.

- Perché…Perché? Ripeteva con un filo di voce, o forse solo dentro alla sua testa.

Intanto, là fuori, sul tavolo grigio, i rumori erano cessati e anche i lamenti sommessi non si udivano più.
Hans corse a vedere.
La creatura che soffriva sopra il tavolo non c’era più. E anche la maggior parte degli uomini con le mani di gomma.
Era rimasto solo uno di loro che strofinava qualcosa sopra al tavolo. Forse per cancellare le macchie rosse.
Hans ritornò di corsa dal suo compagno. Scivolò sul punto in cui lo strato di fieno era più sottile sopra il pavimento di metallo, ma poi si riprese e raggiunse l’altro topo.

- Ehi! Dobbiamo andare via da qui! Subito.
- Ah si? E secondo te come facciamo a passare attraverso quelle sbarre?
- Non lo so, ma dobbiamo tentarci. Siamo topi, mica blatte senza cervello! Una soluzione deve pur esserci.
- Guarda giovanotto, ci hanno provato in tanti…Anche animali più grossi, forti e intelligenti di noi. La settimana scorsa Franco, il beagle, è morto mentre cercava di scappare. È caduto nel pozzo dove buttano i cadaveri. Ce l’aveva quasi fatta…e lui si che era grosso e forte, mica come noi.
Solo pochi giorni fa, invece, Ernesto lo scimpanzé, era riuscito ad arrivare nel cortile, ma gli hanno sparato ed è morto.
- Cosa sono “beagle" e “scimpanzé”?
- Sono altri esseri viventi, proprio come noi. Solo più grandi e forti, molto più grandi e forti di noi, te lo assicuro. Questi sono i nomi che hanno dato loro gli uomini. Anche noi ci chiamiamo “topi” perché loro lo hanno deciso. Sono onnipotenti. Possono fare qualsiasi cosa…Possono uccidere anche le tigri, lo sai?
- Cosa sono le “tigri”?
- Oh, senti, lascia perdere!

Hans era deluso e frustrato. Solo in quel momento si rese conto di non sapere quasi nulla della vita e del mondo.
Ma mentre era intento a commiserarsi e a riordinare i pensieri, le luci al neon si spensero e il bianco abbagliante sfumò in un tenue azzurro che lasciava spazio all’oscurità.

- Che succede?
- Hanno spento le luci per la notte. Ora gli uomini tornano a casa loro e resta solo il guardiano.
- Senti, oh coso… Com’è che ti chiami?
- Gianni, mi chiamo Gianni.
- Senti Gianni, non so cosa sia “guardiano,” ma lasciamo perdere…Però se questi uomini sono andati via, noi possiamo tentare la fuga, DOBBIAMO tentare la fuga! 
- Si? Allora sentiamo il nostro esperto: cosa conti di fare, piccolo, stupido topo?
- Si…Dunque…ehm…Aspetta, ci sono!
- Si, si. Va bene, va bene. Adesso dormi.

Intanto, nelle chiazze di luce azzurra, si muovevano delle ombre indefinite e il silenzio, che avrebbe dovuto impossessarsi degli spazi vuoti del laboratorio, non era ancora arrivato. Era in ritardo.

- Ehi Gianni, ma non avevi detto che gli uomini erano andati via?
- Già.
- E allora cosa sono questi rumori e queste ombre?

D’improvviso la luce bianca e accecante spazzò via l’oscurità.

- Zitto. C’è qualcuno.

I due topi finsero di dormire. I loro occhi, che si erano appena abituati alla semi oscurità tinta d’azzurro, faticarono a mettere a fuoco la scena. Ma Hans si sforzò e, nonostante il fastidio, cercò di tenerne aperto almeno uno per vedere cosa stesse accadendo al di là della loro cella. Gianni, che ne aveva uno solo, non aveva il problema di decidere quale utilizzare.
Fuori, nei pressi del tavolo, c’era un uomo grande e grosso che cercava qualcosa. Era nervoso. Guardava in ogni angolo. Spostava gli oggetti e apriva e chiudeva in continuazione gli sportelli degli armadi.
Quando, ad un certo punto, mentre era intento a raccogliere qualcosa da terra, un oggetto di metallo scivolò fuori da una tasca dei suoi pantaloni, rimbalzò su una sua scarpa e terminò la sua corsa vicino a una gamba del tavolo.
L’uomo non se ne accorse. Probabilmente perché era soddisfatto dell’esito delle sue ricerche. 
Se ne andò e con lui sparì anche la luce bianca.

- Se n’è andato?
- Si. Gli è caduta qualcosa dalla tasca.
- Tasca!? Cos’è tasc…
- Eh basta, topo! Non sai proprio nulla! Fammi guardare giù. Aiutami ad alzarmi.

Hans si avvicinò al suo compagno e lo tirò su con delicatezza. Gianni contorse il volto per il dolore, ma dalla sua bocca non uscì neanche un lamento.
Hans lo accompagnò verso le sbarre e, insieme, misero al lavoro i tre occhi che avevano a disposizione per cercare l’oggetto lasciato da quell’uomo distratto.

- Ecco. Trovato. Guarda lì.
- Dove? Dove?
- Lì, stupido topo! Un po’ più a destra, vicino alla gamba del tavolo. Le vedi?
- Si, ci sono! Ma cos’è?
- Sono chiavi. Servono per aprire le porte, gli armadi, le automobili, ma anche le celle come questa.
- Ah si? Ma come facciamo a prenderle?
- Bella domanda, topo. Bella domanda…

Gianni si grattò l’orbita vuota e provò a concentrarsi.
Hans, invece, non riusciva proprio a pensare. Sentiva di essere a un passo dalla libertà, ma le sue sinapsi non erano in grado di comunicare tra loro. Era stanco e deluso. Forse anche rassegnato, e più di lui lo era anche il suo bel pacchetto di neuroni dentro al cranio. Non riusciva a metterli in moto; eppure era sempre stato apprezzato in famiglia per la sua vena creativa e la sua capacità di adattamento. Ma in quella cella non c’era la sicurezza del focolare domestico e la tranquillità trasmessa dalla stima dei suoi parenti.

Nel frattempo che uno pensava e l’altro si commiserava, i lamenti e i singhiozzi ripresero la scena. Qualcuno stava soffrendo in qualche altra cella. Ma quel pianto solitario innescò un effetto a catena tra gli altri prigionieri, e nel giro di pochi secondi quasi tutto il laboratorio si saturò di lamenti e urla disperate. Forse per paura che qualche uomo stesse riprendendo a manovrare con i ferri su qualche povero disgraziato, o forse solo per empatia verso chi stava soffrendo.  
In ogni caso il risultato fu il caos assoluto, con animali che sbattevano il cranio contro le gabbie, altri che percuotevano le sbarre e un vastissimo campionario di urla e versi di ogni tipo a fare da colonna sonora. 
Il terrore dilagava.

- Cazzo! Così non riesco a concentrarmi.
Gianni si tappò le orecchie con le mani per cercare di isolarsi dal rumore.
- Silenzio! Zitti, maledizione!
Ma il suo intervento fu assolutamente inutile, le urla di terrore sovrastavano la sua flebile voce da topo. Non c’era niente da fare.

- Senti, Gianni, devi lasciarli fare…Magari qualcuno dei più forti potrebbe riuscire a scardinare le sbarre. Bisogna farli incazzare ancora di più, altroché.
Gianni si voltò di scatto verso il suo compagno e gli piazzò il suo occhio infuocato dentro i suoi. Pareva che lo volesse malmenare, se solo ne avesse avuto la forza. Ma dopo qualche istante si calmò e riprese a fissare il mazzo di chiavi.

- Forse hai ragione. Non riusciremo mai a prendere quelle maledette chiavi, è impossibile. Siamo solo due piccoli topi, anzi uno e mezzo.
- Si, sono troppo lontane. Non abbiamo nessuna speranza, caro mio.

Una prima lacrima solcò la guancia paffuta di Hans.
Gianni si ritirò nel suo angolino in fondo alla cella e si ranicchiò nell’ombra. Dallo squarcio sul fianco fuoriusciva del siero. Il suo respiro era pesante e rumoroso, lo si poteva udire chiaramente anche in quell’inferno di urla strazianti.
Hans lo fissò per un attimo, poi gli volse le spalle, poggiò la faccia sulle sbarre, chiuse gli occhi e lasciò libere le lacrime che si erano accumulate sotto le palpebre.
In preda allo sconforto si lasciò cadere sul pavimento di paglia maleodorante, con il cuore rigonfio di dolore e la nocciola sempre stretta nel pugno.
Non udiva più neanche le urla dei suoi compagni di sventura. In quel momento avrebbe voluto solo una cosa: una morte veloce e indolore.
Ma dopo avvenne qualcosa di nuovo e inaspettato che lo risvegliò di botto dal torpore. La luce bianca aveva ripreso il posto della semi oscurità virata all’azzurro e anche le urla avevano mutato colore; non erano più solo grida di dolore e terrore, era subentrata la rabbia e la violenza e, nello sfondo, riuscì a percepire anche la voce di un gigante, o almeno così gli parve.
Si alzò in piedi e corse da Gianni.

- Ehi, Gianni! Svegliati, sta succedendo qualcosa. Forse avevo ragione. Dai, Gianni!

Con la punta delle dita scosse il corpo del compagno, ma non ebbe risposta.
Gli sollevò la testa delicatamente, ma dalla bocca di Gianni fuoriuscivano flotti di liquido rosso e nessun respiro. Era morto.
Hans non riuscì a dire più nulla, un groppo alla gola gli bloccava le corde vocali e tutte le parole che avrebbe voluto spendere per lo sfortunato topo.
Gli accarezzò la fronte fredda e si precipitò dall’altra sponda, verso il mondo esterno.
Il laboratorio pullulava di animali di diverse specie che non aveva mai visto prima; molti, però, erano ricoperti di sangue, tanti erano mutilati o avevano fasciature in buona parte del corpo. Alcuni avevano strani pezzi di metallo o tubi di plastica che fuoriuscivano dalle teste, dagli occhi o dal torace. Ma erano incazzati, molto incazzati.
Un grosso essere ricoperto di peli rossicci stava trascinando il corpo senza vita di un uomo, forse il guardiano.
Hans strillò per la gioia nel vedere quel volto sfregiato infilzato da una moltitudine di oggetti di metallo. E anche gli altri urlavano. Tutti urlavano.

- Ehi, ragazzi! Sono qui…Aiutatemi! Là sotto c’è la chiave.

Ma nessuno lo stava a sentire. Urlavano e danzavano davanti al nemico ucciso. Qualcuno ancora infieriva sul cadavere, altri saccheggiavano le riserve di cibo.

- Aiuto! Sono qui su. Per favore aiutatemi…Sono qua sopra.

Nessuno riusciva a sentirlo. Erano troppo piccoli, lui e la sua voce. Si rassegnò e smise di gridare. Poi la sua attenzione venne attratta da un piccolo uomo, piccolo come lui, inchiodato su due pezzi di legno incrociati. Ce l’aveva di fronte, nella parete opposta, ma sino a quel momento non l’aveva notato. Avrebbe voluto chiedere a Gianni chi fosse quel piccolo uomo e cosa avesse fatto di male per trovarsi nella stessa situazione degli animali del laboratorio, ma Gianni non c’era più.
Mentre era intento a districarsi nel suo marasma di pensieri, il giovanotto rossiccio che aveva trascinato l’uomo morto si accorse di lui. Hans si ritrovò di fronte una sfilza di grandi denti gialli che facevano bella mostra di sé in uno strano sorriso a gengive scoperte. Non aveva mai visto niente del genere, ma non aveva paura; sicuramente non era un uomo e questo gli bastava per tranquillizzarlo.
La grande creatura aveva un bel ciuffo di capelli rossi sulla testa quasi calva. Hans era incantato da questo e pensò che se fosse sopravvissuto lo avrebbe voluto anche lui un bel ciuffo.
Ma, soprattutto, il vendicatore rosso aveva grandi braccia, lunghe e muscolose, e grandi mani simili a quelle degli uomini. Per lui fu un gioco da ragazzi aprire uno spazio tra le sbarre della minuscola gabbia di Hans e il topo saltò giù con un grido di gioia.
L’atterraggio non fu dei più piacevoli, ma lui non ci fece caso più di tanto. Si massaggiò il sedere dolorante e si mise a correre.
Si voltò verso il suo salvatore e gli sorrise, anche se non aveva a disposizione una dentatura importante come la sua.

- Grazie! Grazieeeee!
- Ragazzi, dobbiamo uscire di qui prima che arrivino altri giganti.

Gli animali liberi erano una quarantina. Di sicuro ce n’erano altri dentro le gabbie, ma nessuno se ne accorse in quei momenti di euforia. Molti di loro non avevano mai conosciuto la libertà, molti altri l’avevano dimenticata. Solo chi era finito in prigione da poco tempo, come Hans, o chi non aveva ancora perso la ragione, come il povero Gianni, ne avevano un ricordo fresco e avevano una piena consapevolezza della sua importanza.

- Dobbiamo liberare gli altri. Presto!

Ma nessuno lo sentì, piccolo com’era.

- Mi sentite? Dobbiamo aprire le altre gabbie! Per favore ci sono altri prigionieri da salvare!

Ma nessuno gli diede retta. Lui continuò a sbracciarsi e a urlare per attirare l’attenzione dei più grandi ma, nonostante i suoi sforzi, non ci fu nulla da fare. Del resto i popoli che non conoscono la libertà non sempre ne fanno un uso appropriato, una volta acquisita. In questo caso, dentro il laboratorio degli orrori, i fuggiaschi pensavano solo a vendicarsi, infierendo sugli oggetti utilizzati per le torture e sul carnefice catturato, e saziandosi del cibo che gli era stato negato.

- Vi prego, aiutate anche gli altri. Vi prego.

Ma Hans non fece in tempo ad aggiungere altro, perché nel laboratorio irruppero decine di uomini con strani vestiti e ancora più strani arnesi tra le mani. Nel volgere di pochi secondi dilagò il panico. Molti animali vennero uccisi o catturati.

- Scappa, topo, scappa!

Un gatto con un paio di bulloni piantati in testa richiamò l’attenzione di Hans e questi lo seguì senza esitare un solo istante. Dietro di lui si formò una piccola di fila di una decina di animali disperati appartenenti a diverse specie. Oltre loro due, facevano parte del gruppo dei fuggiaschi due conigli, una scimmia, quattro cani e un altro gatto con tre zampe.
Corsero con quanto fiato avevano in gola, guidati dal gatto con i bulloni e nel giro di pochi minuti guadagnarono l’uscita e l’aria fresca.
Gli uomini avevano lasciato aperta la porta di servizio da dove avevano fatto irruzione, ma nessuno di loro ci pensò e nessuno si accorse della fuga, occupati com’erano nel dare la caccia ai più grossi e forti.

Il gruppo riuscì a varcare anche il grande cancello, anche questo lasciato involontariamente aperto dagli uomini armati.
Correvano in silenzio, in ordine sparso per non dare nell’occhio.
Fuori l’aria era fresca, c’era una piacevole brezza che scivolava dolcemente sui peli dei sopravvissuti.
Sopra di loro luccicava un soffitto di stelle. Alcuni di quegli animali non l’aveva mai visto prima, ma nessuna distrazione era ammessa: l’unica cosa importante era correre, correre, correre…

Si lasciarono alle spalle il grande edificio circondato di filo spinato, ma continuarono a correre, nonostante i dolori e la fatica.

- Attenti!

Un rumore assordante squarciò la notte.
Il grande tir rosso come il fuoco non riuscì a fermare la sua corsa e travolse il gruppo di disperati.
Per terra rimasero solo pezzi di corpi, sangue e una nocciola che rotolò giù in cunetta.
Altre auto schiacciarono le budella ancora palpitanti.

Solo la nocciola rimase integra.


Fine.



Appendice

Dato che oggi è il 25 aprile, e nella nostra piccola e martoriata Italia si celebra la festa della Liberazione, non si può non approfittare dell'occasione per cercare di aiutare, nel lento e doloroso cammino della Libertà, anche i nostri sfortunati parenti a quatte zampe. Anche loro hanno il problema dell'occupazione nazista: i loro territori vengono colonizzati e distrutti da feroci orde di animali umani che, a differenza di quanto accaduto da noi nella seconda guerra mondiale, non necessariamente parlano tedesco, ma sempre di nazisti si tratta.
Anche loro vengono massacrati in campi di sterminio che non hanno niente di diverso rispetto ai lager nazisti e anche loro hanno sofferto e soffrono ancora adesso, nel 2014, a causa del business della case farmaceutiche, delle multinazionali e di una parte di "ricercatori" dal bisturi facile e dai portafogli abbondantemente foraggiati dai ricchi sponsor.
Ieri, il 24 aprile, si è celebrata La Giornata Mondiale per gli Animali da Laboratorio, per ricordare le vittime della "scienza" e per chiedere al mondo "civile" una ricerca più etica e "umana."
Questa ricorrenza nasce dal progetto della National Anti-Vivisection Society di Londra nel 1979 e di recente è stata riconosciuta e adottata dall'ONU.

Sono 120 milioni gli esseri viventi torturati e uccisi ogni anno nei laboratori della morte sparsi nel mondo.

In questi giorni molte associazioni si stanno mobilitando per boicottare e dissuadere la compagnia aerea Air France-KLM affinché non prosegua con i viaggi della morte. La compagnia in questione è rimasta l'unica tra le grandi del mondo a occuparsi del trasporto dei primati dai paesi di provenienza verso i campi di sterminio dell'occidente.

Nel sito essereanimali.org potete trovare tutte le informazioni del caso e soprattutto il form della petizione da inviare ad Air France.





"Sono 900.000 in Italia, più di 10 milioni in Europa e 120 milioni nel mondo gli animali che muoiono nei laboratori ogni anno. Per ricordare queste vittime il 24 aprile è stata istituita la "Giornata mondiale per gli animali nei laboratori" e in occasione di tale data molte sono le mobilitazioni che si susseguono in varie parti del mondo.
Gli animali uccisi nei centri di ricerca nascono in allevamenti specializzati. Ma non tutti. I macachi e i primati in genere non possono essere fatti riprodurre per più generazioni in cattività. Vengono così continuamente catturati in natura, strappati dalle loro foreste e dalle loro famiglie.
Solamente dalle Mauritius sono 10.000 i macachi esportati e spediti verso un futuro di prigionia e sofferenza. Tutti vengono trasportati all’interno di aerei AirFrance, l’ultima delle compagnie aeree internazionali ancora coinvolta in questa tratta e principale perno su cui ruota la sperimentazione di primati nel mondo.
In occasione di queste giornate di mobilitazione abbiamo deciso di appoggiare la campagna globale di boicottaggio e protesta contro AirFrance-KLM.
Le proteste e le pressioni intraprese negli ultimi anni sono riuscite a convincere le principali linee aeree a cessare il trasporto di primati o altri animali destinati alla vivisezione. Vogliamo che AirFrance segua l’esempio di AirChina, China Southern,United Airlines, Lufthansa, AirCanada e molte altre.
Riuscirci dipende anche da te. AIUTACI A FARE LA DIFFERENZA!
1) INFORMA chi conosci del boicottaggio internazionale in atto contro AirFrance-KLM. Non volare con aerei che riempiono le stive di animali destinati alla tortura!
2) FIRMA ora la petizione online a questo link.
Con tutte le vostre mail chiediamo ad AirFrance-KLM di unirsi a tutte le altre linee aeree che hanno preso decisioni etiche.
3) PARTECIPA al #tweetstorm del 24 aprile contro AirFrance. Non sai cosa è un tweetstorm? Leggi qui!
Ancora non ci segui su Twitter? Ci trovi a questo indirizzo"


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