Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

sabato 17 ottobre 2015

Occhi



Gianni decise di andare a letto, nonostante fosse abbastanza in anticipo rispetto al suo solito. Era relativamente presto, ma era molto stanco; si era appena lasciato alle spalle una giornata molto pesante e anche quella notte di mezza estate non prometteva niente di buono. Era in preda ai tormenti delle scottature causate probabilmente da un’eccessiva esposizione al sole. C’erano alcune porzioni del rivestimento del suo corpo, soprattuto nei polpacci, nelle spalle e nel collo del piede destro, che erano pericolosamente più simili ad ustioni vere e proprie che non ai comuni effetti del lento rosolare sopra la sabbia rovente. Di solito l’esposizione al sole non gli causava alcun tipo di problema, neanche quando si tratteneva a lungo nelle ore più calde. Ma questa volta non si era trattenuto più di tanto, giusto qualche ora per dare un po’ di colore alla cute.
La giornata bollente, senza un filo d’aria e con un tasso di umidità insopportabile, era finita, inevitabilmente, nell’immenso microonde della lunga distesa di sabbia finissima, alla ricerca di un po’ di refrigerio. Ma la sabbia non si poteva neanche sfiorare per quanto era calda, il grill in alto era sempre accesso, al massimo della potenza, e non c’era vento, neanche una timida brezza. Per non parlare dell’acqua che non era in grado di dare refrigerio, se non giusto un minimo, a causa della sua temperatura eccessiva. Il mare era piatto, caldo e torbido come un brodo.
Come se non bastassero il fuoco e le fiamme che bruciavano il pomeriggio, la spiaggia era anche affollata ben oltre il limite di vivibilità. C’erano centinaia di esseri umani impanati di sabbia, creme e sudore che friggevano nei loro asciugamani colorati e sdraio a castello. Ognuno aveva pochi centimetri di spazio, poca aria, poca acqua bollente a disposizione ma sole a volontà. Gli odori e i rumori rendevano il grande condominio sul bagnasciuga assolutamente invivibile, proprio come i condominii su in città. Nè più né meno.
Per questo Gianni, dopo aver steso le pelli a essiccare per non più di un paio d’ore, decise di portare via la sua carne e i suoi oggetti. Era cotto.
Il resto della serata, però, si tenne sugli stessi standard con il lungo mare affollato di venditori ambulanti abusivi che proponevano mercanzia di ogni genere, o forse solo e sempre la stessa roba. Rumori e odori sgradevoli. Bambini chiassosi. Animali chiassosi. Vecchiette chiassose. E bar che regalavano un’abbondante porzione del proprio frastuono non solo agli avventori ma anche a chi si trovava a passare a qualche chilometro di distanza.
Ma il meglio doveva ancora arrivare. Appena il sole si ritirò nei suoi appartamenti, il denso strato di aria calda e umida che circondava gli esseri umani venne occupato da orde di zanzare fameliche immuni a ogni tipo di deterrente.
La pelle di Gianni che già aveva subito le sevizie del forno a microonde divenne il luogo prediletto di una famigliola di zanzare per farci un picnic. La cute arrossata, infiammata e dolorante venne ricoperta di ponfi di varie dimensioni; alcuni piccoli come capanne ma estremamente pruriginosi, altri più grandi, immensi come montagne, rossi come il fuoco.
E anche l’arrivo della notte non portò nessun beneficio. L’aria era sempre quella del forno, l’umidità crebbe ulteriormente e il vento latitava, timoroso. Solo qualche grado in meno rispetto al giorno, ma giusto un paio. Non di più.
Anche il letto con il suo materasso consumato e le sue molle esuberanti, che gracchiavano rumorosamente, ci mise del suo. Il cuscino in gomma piuma raggiungeva temperature prossime alla fusione del piombo e le lenzuola parevano di carta abrasiva sulla pelle bruciata.
Gianni si ritrovò a girarsi e rigirarsi come una bistecca sulle braci ardenti, mentre le ore scorrevano lente, calde e sudate.
Rivoltò il cuscino innumerevoli volte alla ricerca di un lembo meno bollente. Il sudore scorreva a fiumi sulla schiena, sulla fronte e in ogni piega del suo corpo.
Quando, dopo l’ennesimo tentativo di acchiappare il sonno sfuggente, aprì le palpebre sudate e vide due piccole sfere luminose in prossimità della parete opposta, vicino alla porta aperta.
in un primo momento non ci fece caso più di tanto. Forse attribuì quella visione alla stanchezza, al caldo o chissà cos’altro, e richiuse gli occhi. Rigirò il cuscino. Si grattò le punture di zanzara più impertinenti e cercò di rincorrere ancora il sonno tra le pieghe delle lenzuola umide. Ma questo, proprio sul più bello, quando lui era convinto di averlo acciuffato, scivolava via come una saponetta umida.
Il caldo, il prurito, la pelle che scottava, il materasso per fachiri; tutti si erano coalizzati per impedire un normale accesso alla via del sonno.

Dietro le palpebre chiuse di Gianni succedeva di tutto: colori, persone e immagini scorrevano come se fosse pieno giorno. Ma in quello strano ibrido tra sonno, realtà e pensieri, un posto di primo piano l’avevano conquistato le due piccole sfere luminose incontrate per caso pochi istanti prima. Ne avvertiva ancora la presenza, si sentiva osservato, anche se aveva gli occhi chiusi ed era in posizione prona.
Dopo qualche secondo di tormenti e sudore si tirò su e si mise seduto sul letto. Le lenzuola aggrovigliate erano diventate una massa informe. Il materasso se ne era privato quasi completamente ed era ormai nudo sotto la pelle di Gianni.
Lui sbuffò, si stropicciò gli occhi e dopo aver liberato uno sbadiglio rinchiuso da troppo tempo si voltò nella direzione dove aveva creduto di vedere le due piccole sfere luminose. Non vide nulla questa volta, ma per accertarsene definitivamente si decise ad accendere la luce, causando ai suoi occhi un ulteriore tormento.
Niente. Non c’era nulla.
Spense la lampada e provò a dare un senso al mucchio di lenzuola che aveva sotto le natiche. Infine si lasciò cadere esausto sul materasso, divaricò gambe e braccia per disperdere meglio l’eccesso di calore e per permettere alle pozzanghere sotto le ascelle di asciugarsi o, perlomeno, di abbassare il livello delle acque.
Il torace si sollevava ritmicamente seguendo il tempo scandito dalla vecchia sveglia rumorosa che abitava sul comodino da tempo immemore. I raggi solari di qualche ora prima ancora cuocevano la carne, lentamente, a fuoco lento. Non aveva scampo. L’unica, magra, consolazione era rappresentata dal fatto che la notte era già a buon punto e, una volta terminata la cottura, sarebbe svanita con la luce del nuovo giorno, ormai imminente.
Era stanco, terribilmente stanco. Altrimenti si sarebbe alzato, avrebbe guardato qualche noioso programma in tv o, magari, avrebbe ascoltato della musica.
E ci stava pensando seriamente, dietro alle palpebre chiuse. Ma da qualche minuto le punture di zanzara non si facevano sentire e, anche se la pelle bruciava ancora, i pensieri stavano perdendo consistenza e la nebbia si stava diffondendo nel cervello. E a quel punto si stava affacciando la speranza di qualche minuto di sonno ristoratore, ma si sa: la speranza è l’ultima a dormire e anche in quell’occasione l’accenno di torpore che in genere prelude al sonno vero e proprio si rivelò un falso allarme.
La sveglia, il caldo, le ustioni e anche il prurito, che aveva ripreso vigore, gli piombarono addosso senza pietà. In preda alla disperazione, tormentato dal nervosismo, imprecando e bestemmiando, si sollevò seduto sul letto, portandosi dietro un lembo di lenzuolo appiccicato alla schiena dal sudore, e aprì gli occhi nel buio. 
E il buio era più denso e profondo di quanto si sarebbe aspettato. Le notti d’estate conservano sempre un po’ del chiarore dispensato dalla luna o dalle stelle. Ma in quel momento nella stanza non filtrava neanche una particella luminosa dall’esterno, nonostante la finestra aperta e la presenza di numerosi lampioni lungo la via.
Gianni si stropicciò gli occhi, pensando a un qualche strano effetto collaterale della notte insonne, ma non ne trasse beneficio. Il buio persisteva. Pensò a un blackout, a un’improvvisa comparsa di nubi, foschia o chissà cos’altro nel cielo di quella notte infernale. Fece per voltarsi verso la finestra per guardare fuori, quando le due sfere luminose comparvero nuovamente nell’oscurità e vennero incontro al suo sguardo. Si avvicinavano velocemente, molto velocemente, in silenzio, e nonostante la fitta coltre di tenebre Gianni riuscì finalmente a metterle a fuoco e a capire di cosa di trattasse. Ma era troppo tardi, le narici si saturarono dell’alito fetido delle fauci spalancate. I grandi occhi gialli piombarono dentro i suoi, ma in quel momento non sembravano così tanto luminosi: erano opalescenti e striati di sangue. Ma la cosa più terribile, dopo una notte del genere popolata da mostri di ogni tipo, era l’aria irrespirabile, l’odore di putrefazione fortissimo, acido e penetrante, che proveniva da quella bocca.

Gianni era sconvolto più dalla nausea che non dalla paura o dalla sorpresa, ma non fece in tempo a vomitare che la belva gli aveva già reciso la carotide con i canini acuminati. Dalle labbra contorte dell’uomo uscì solo un debole gorgoglio e quando la bestia gli squarciò la gola venne fuori, insieme al sangue, un fiotto di vomito che nel frattempo gli era risalito lungo l’esofago. L’ultima cosa che vide prima di lasciare il letto, la stanza, la notte e il mondo, erano quei tremendi occhi gialli, freddi e immobili a pochi centimetri dai suoi.


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