Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

giovedì 17 dicembre 2015

La fabbrica d'aria




Dalle ciminiere fuoriusciva un fumo nerastro, denso e maleodorante, decisamente insolito. Anche il rumore delle ventole, con il quale convivevano da sempre tutti, era differente da quanto erano abituati a udire. Il vento in sottofondo prodotto dalle eliche in moto perpetuo era parte integrante della vita nella valle. Perciò anche una piccola variazione di tono, una vibrazione appena percettibile o anche solo l’allentamento di un bullone, faceva scattare l’allarme nel popolo della valle. 
Le enormi ventole decoravano come una gigantesca corona bianca le dolci colline che cingevano placidamente la città e il bosco che si espandeva dalla periferia sino ai piedi della colline brulle. Facevano parte del paesaggio oltre a essere fondamentali per la vita di tutta la comunità. Il rumore stesso di quelle gigantesche eliche era rassicurante, e qualcuno lo riteneva anche piacevole, una sorta di sinfonia post industriale che allietava le giornate del popolo e ne garantiva la vita. Senza di esse, infatti, niente e nessuno poteva garantire loro il necessario apporto di ossigeno, in ogni istante dell’esistenza.
Ma quel giorno il fumo inquietante proveniente delle ciminiere che decoravano il colle più alto e il fastidioso gracchiare di una o più ventole, fecero fermare la città. Ogni attività venne sospesa contemporaneamente, le macchine dentro le fabbriche si fermarono, le code agli sportelli si dissolsero, il traffico si fermò e le persone si precipitarono per strada, in silenzio, con lo sguardo fisso verso le enormi turbine che circondavano la città.
Margaret stava versando il latte caldo nelle scodelle dei figli e non si fermò neanche quando il liquido caldo formò una pozza sulla tovaglia e infine raggiunse le ginocchia scoperte dei bambini. Il rumore inquietante delle ventole era entrato anche in casa sua e nessun altro suono, parola o pensiero, potevano distogliere la sua attenzione da quanto proveniva dalle colline, neanche le urla del figlio più piccolo e la caraffa del latte che si stava svuotando sul pavimento.
Roger, il barbiere, non governava più il rasoio e ormai aveva già superato il confine della basetta e scivolava lungo la tempia, creando una piazzola imprevista.
Frank abbandonò lo sportello della banca senza preoccuparsi di chiudere cassa e porta, ma tanto nessuno era interessato ai soldi in quel momento. Erano tutti concentrati sul suono delle ventole e su tutto ciò che ne poteva conseguire.

Per molti di loro non era concepibile un modo di respirare diverso da quello garantito dalle ventole. Quasi tutti erano nati e cresciuti con quell’ossigeno artificiale e non avevano mai respirato aria vera. Da quando, tantissimi anni prima, avevano detto che l’inquinamento e il livello di anidride carbonica avevano raggiunto livelli incompatibili con la vita e perciò si era reso necessario installare le turbine. In effetti molte persone si ammalarono e morirono prima che fossero terminati i complessi lavori di realizzazione del sistema di aerazione. Ma non erano chiare le circostanze che avevano portato a quei decessi anche perché se la causa era, come si diceva, imputabile alla mancanza di ossigeno doveva essere l’intera popolazione ad estinguersi. Tuttavia da quando erano entrate in funzione le ventole il numero di morti era rientrato nella norma da un giorno all’altro, magicamente. Da quel momento le turbine erano state venerate come dei; erano meta di pellegrinaggi e di grandi festeggiamenti in occasione dell’anniversario della loro costruzione. Costituivano il monumento più importante e visitato della città.
Solo pochi anziani, che avevano conosciuto il mondo prima della fabbrica d’aria, avevano il coraggio di dissentire pubblicamente sulla sua utilità e non si stancavano di raccontare come era bella e vivibile la città, come era pura l’aria nel bosco e sulle colline prima del suo avvento, prima che quegli enormi mostri deturpassero irreversibilmente il paesaggio e la loro vita.
Ma con il tempo i loro racconti avevano acquisito lo stesso valore di una qualsiasi vecchia leggenda, buoni solo per allietare le sere d’inverno intorno al camino, né più né meno. La stragrande maggioranza degli abitanti della città vivevano grazie e per le ventole e non conoscevano altro mondo oltre a quello della valle. Dalla valle, infatti, non si poteva uscire perché al di fuori dell’area servita dall’ossigeno della fabbrica la vita non era possibile. Così era stato scritto e tramandato ai posteri. Non esisteva niente altro che la fabbrica, la città e la valle. Era un microcosmo autosufficiente, ristretto e chiuso, ma autosufficiente. Non c’era alcun punto del territorio non raggiungibile a piedi nell’arco di una giornata, ma nella valle c’era tutto quanto era necessario per il sostegno della popolazione, per il lavoro e lo svago. Anche se alcuni anziani  non erano d’accordo.

Il vecchio Wilson si precipitò per strada, ricurvo sul suo bastone ma risoluto e rapido nell’andatura. Nel suo cammino si divertì a inveire contro tutte le persone immobili con il naso all’aria. I suoi passi rimbombavano nel silenzio assoluto, in mezzo a quella selva di manichini. Nessuno però rispose ai suoi insulti e a qualche suo colpo di bastone, erano troppo preoccupati per la sofferenza delle macchine che chiedevano aiuto, lassù in collina. Eppure lui aveva lavorato per tantissimi anni nella fabbrica con una posizione di tutto rispetto, ne conosceva ogni segreto, ma nonostante ciò, nessuno gli dava retta.
Intanto la squadra di addetti al controllo e manutenzione era all’opera da diversi minuti, il loro intervento era stato, come sempre, estremamente tempestivo: il primo operaio era già sul pezzo dopo solo pochi secondi dal primo rumore sospetto. C’era un via vai incessante di operai con le loro ingombranti cassette degli attrezzi e un brulicare di ingegneri e dirigenti con le loro cartelle zeppe di codici e schemi. Una cospicua fetta di abitanti della valle lavorava nella fabbrica e nei servizi annessi. Per l’occasione venne richiamato anche il personale fuori servizio e anche alcuni operai specializzati  già in pensione da tempo.
Il direttore Watson era nervoso e agitato, l’ampia fronte rugosa era attraversata da rivoli di sudore. Le sue dita della mano sinistra tamburellavano nervosamente sul tavolo in noce, mentre quelle della mano destra erano impegnate a digitare numeri al telefono. Al suo cospetto si erano presentati la massime autorità cittadine: il sindaco ancora in pigiama, il vescovo e il capo della polizia, anch’essi in preda agli spasmi dell’ansia e ai tipici tormenti di chi ricopre una carica importante ma non ha la minima idea di cosa fare. Davanti a loro scorrevano le immagini delle telecamere di sorveglianza. In ogni schermo non si vedeva altro che squadre di operai che ispezionavano e armeggiavano in ogni dove.
Ma il guasto non si trovava. I terminali della sala operativa non segnalavano alcunché e gli ingegneri brancolavano nel buio più fitto.
Dopo alcune ore di lavoro intenso, e più o meno utile allo scopo, alcuni ingegneri e capi squadra consegnarono le loro cartelle al direttore, scuotendo il capo.
Watson si alterò come mai gli era capitato da quando dirigeva la fabbrica e scacciò via i vili traditori della causa, lanciandogli addosso nell’ordine: un posacenere, un fermacarte, un registro e una penna laminata in oro.
I disertori lasciarono la stanza con le teste basse e i camici striscianti, ma questo non bastò a placare l’ira del direttore che continuò a inveire contro di loro anche quando erano ben lontani dal suo ufficio.
Il vescovo si fece il segno della croce e pregò sottovoce.
Il sindaco annuì compiacente.
Il capo della polizia si segnò in un taccuino i nomi del manipolo di disfattisti.

Intanto molti altri uomini, a tutti i livelli, lavoravano ancora, senza sosta. Ma  il rumore delle ventole era sempre più stridente e preoccupante; aumentava in maniera esponenziale con il trascorrere dei minuti. Pareva che si nutrisse della paura e crescesse di pari passo con questa.

Giù in città si erano formati gruppi spontanei di preghiera e meditazione. Tutto era fermo. Immobile. Anche il latte di Margaret aveva smesso di scorrere, così come il rasoio di Roger. Ma il vecchio Wilson no, lui non si era fermato, proseguiva a camminare nelle vie più affollate intorno alla piazza principale per guardare in faccia i suoi concittadini manichini, borbottando, tossendo e imprecando. Ma nessuno pareva preoccuparsi di lui.
Si guardò intorno e non vide altro che manichini inanimati.
Poi prese la strada che conduceva alla fabbrica e s’incamminò sbuffando come un treno. Impiegò molto tempo, fatica ed energie, per raggiungere le colline e la fabbrica ma infine ci riuscì. Entrò dentro approfittando della confusione e del flusso continuo di tecnici e pensatori e raggiunse facilmente la sala operativa. Si guardò intorno. Qui non c’erano manichini con il naso all’aria ma nessuno pareva accorgersi della sua presenza, proprio come giù in città. Ebbe tutto il tempo necessario per cercare e trovare la consolle di comando e il tasto rosso che aveva sempre sognato di poter premere una volta nella vita, fosse anche l’ultimo dei suoi gesti.
Intorno a lui era tutto un susseguirsi di comandi, verifiche e test di ogni genere. Gli ingegneri ripetevano ossessivamente le sequenze dei controlli di sicurezza e l’analisi del sistema alla ricerca della falla.
Wilson ebbe tutto il tempo di studiare un piano, senza essere disturbato o ostacolato da nessuno. Appena il camice bianco seduto di fronte al pulsante rosso si alzò con i suoi inutili fogli di carta in mano, il vecchio Wilson partì all’azione. Girò verso destra la prima chiave, premette nell’ordine esatto la sequenza di dodici cifre, e girò la seconda chiave. Lo sportello trasparente che ricopriva il pulsante rosso si aprì e il vecchio non esitò un attimo: premette con forza, emettendo un sospiro di sollievo.
L’allarme risuonò in tutte le sale della fabbrica.
Anche i più stacanovisti tra gli operai si fermarono. Il direttore smise di tamburellare, il vescovo smise di pregare, il sindaco smise di non fare niente e si aggiustò il nodo della cravatta che non aveva.
Le ventole si fermarono.
Una voce registrata avvertiva che era stato violato il protocollo di sicurezza e la fabbrica andava incontro a un blocco irreversibile.
Il vecchio Wilson e il suo bastone uscirono dalla sala e dalla fabbrica, ripercorsero la strada lungo la valle e nessuno badò a loro.

La fabbrica d’aria si era fermata ma nessuno avvertì difficoltà a respirare, neanche solo un piccolo malore. Nessun disturbo, nessun mancamento. La popolazione della valle continuava a respirare e a vivere anche senza l’ossigeno della fabbrica.

Quando Wilson raggiunse la piazza principale era esausto, ansimava e la mano tremolante non riusciva più a reggersi sul bastone. Cercò di raggiungere la panchina ma si accasciò al suolo a pochi centimetri dalla meta. Prima di abbandonare definitivamente la valle riuscì a intravvedere, con gli occhi velati dalle lacrime, una piccola folla di ex manichini che inaspettatamente si prodigava intorno a lui per aiutarlo in qualche modo. Accolse l’ultimo respiro d’aria pura con un sorriso.



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