Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

giovedì 12 novembre 2015

L'alveare


Al numero civico 20 le cose parevano andare per il verso giusto. Non si udivano le urla e gli insulti che solitamente costituivano l’attività principale della maggior parte degli abitanti di ogni alveare. Infatti, per poter vivere o solo sopravvivere in uno di questi scatoloni grigi era necessario avere come requisito fondamentale quale l’attitudine alla guerra o, meglio ancora, alla guerriglia. Se non si possedeva un’indole adeguata al combattimento la logica conseguenza era l’inevitabile estinzione o in alternativa la riduzione in schiavitù. Come avveniva in tempi remoti a Sparta, anche nei grossi agglomerati urbani moderni sopravvivevano solo i più forti (e i più furbi) non necessariamente i più intelligenti. Non c’era alcuno scampo per i deboli o i cagionevoli di salute. Certo, c’era anche una seconda opzione: l’esodo. Ma non sempre questa scelta era fattibile, vuoi per motivi economici, vuoi per l’avanzare dell’età o anche solo a causa della stanchezza, dovuta da anni di estenuante ricerca di una tana.
Il problema, in fondo, era solo di preparazione degli aspiranti occupanti che, prima di insediarsi nell’alveare, non frequentavano quasi mai un corso intensivo nel corpo dei marines, nelle forze speciali o nell’anti terrorismo. Nessuna palestra, né boxe o anche solo qualche rudimento di arti marziali, tantomeno un corso intensivo in un poligono di tiro. Per quanto riguarda, poi, l’attitudine ad aggredire, a imbrogliare, a rubare, o quantomeno a violare la privacy del prossimo, be’ quella doveva essere innata, non si poteva acquisire in alcun modo: o ce l’hai o non ce l’hai. Chi ne era sprovvisto non avrebbe dovuto neanche solo poggiare un piede all’interno di uno scatolone grigio.
C’erano inoltre altri fattori che contribuivano a rendere assolutamente invivibili   gli alveari, e non si trattava di elementi di poco conto, anzi tutt’altro. il primo di questi era la presenza immancabile di bande di minorenni, che avevano come unico scopo della loro giovane vita, la distruzione di ogni cosa, animata o inanimata. Queste orde, questi branchi più o meno numerosi, approfittavano della loro impunità in quanto non avevano raggiunto ancora la maggiore età e perciò le forze dell’ordine e la magistratura al massimo potevano dargli una pacca sulle spalle. Il secondo fattore da tenere in debita considerazione, soprattutto se si trattava di anziani e ancora di più se soli, era l’assoluto divieto di lasciare la propria abitazione anche solo per pochi minuti. Infatti per questa categoria di abitanti era impossibile andare a fare la spesa, tantomeno potevano assentarsi per visite di cortesia o visite mediche. Era assolutamente impensabile fare un viaggio o ricoverarsi a causa di un malanno. In pratica se l’anziano solitario lasciava incustodita la propria abitazione, anche solo per qualche minuto, al suo ritorno ci trovava dentro altre persone, la serratura cambiata, se non una porta completamente nuova. A quel punto doveva dire addio alla sua casa e alle sue cose, e nessuno poteva fare niente per lui.

Ma come dicevo prima, al numero 20 era diverso, o almeno così appariva dall’esterno. Innanzitutto lo scatolone grigio era in questo caso colorato, ordinato e pulito. Ma una volta varcato il portone principale, anche se non si udivano urla, bestemmie e fuochi d’artificio, si respirava un’atmosfera strana, pesante. E questo non era dovuto al tanfo proveniente dagli appartamenti del primo piano, almeno non solo a questo. Dentro questo alveare molto, troppo, spesso regnava un silenzio irreale, non si udivano le api operaie al lavoro. Non volava una mosca, o meglio: queste volavano anche in buon numero, a causa della scarsa igiene degli occupanti del primo piano, ma non facevano rumore. Gli abitanti pareva sparissero improvvisamente, anche nelle occasioni più impensabili, come in un grigio pomeriggio d’autunno o in piena notte. Poi riapparivano dal nulla e lo scatolone si popolava di esseri vocianti, bambini, cani e vecchi acciaccati. Ma quando li si cercava, quando sarebbe stato utile che tutte le api operaie fossero al loro posto, non c’erano mai.
Eppure anche qui non si facevano mancare qualche dispetto, qualche bega tra fazioni avverse, ma non c’erano mai state denunce, né morti o feriti. I vari gironi convivevano in relativa armonia, anche se, bisogna dirlo, quello degli zozzi spesso aveva la meglio su quelli dei lussuriosi, dei golosi, degli eretici o degli iracondi e accidiosi. Perché gli zozzi, in quanto tali, avevano un’arma in più: la puzza. E contro di essa si poteva fare ben poco; al massimo la si poteva arginare con alcuni presidi dall’effetto temporaneo e assolutamente non risolutivo, quali deodoranti e profumi per ambienti. Per quanto riguarda invece i liquami e la spazzatura che si produceva in gran quantità in questo girone, si rimediava a turno. Ogni tanto qualcuno si incaricava di ripulire e riordinare lo spazio comune, su quello all’interno degli appartamenti del primo piano, invece, non si poteva intervenire in alcun modo.
Tuttavia, nel mondo esterno, le altre api operaie erano convinte che alla numero 20 fosse tutto rose e fiori (evidentemente non avevano buone cellule olfattive). Tanto erano convinte di questo che alcune di esse, spinte dall’invidia e accecate dall’ira a causa dei loro abominevoli alveari nei quali erano costrette a vivere, ingaggiarono una delle innumerevoli baby gang del quartiere per seminare lo scompiglio al numero 20.
Le feroci orde di ragazzini ebeti agirono con precisione chirurgica; dapprima si preoccuparono di conquistare il perimetro esterno, cosa che peraltro si rilevò più facile del previsto, saccheggiarono e distrussero i cassonetti della differenziata, piante e arbusti. Poi si dedicarono ai mezzi del nemico e asportarono diversi specchietti retrovisori, qualche antenna e i tappini dalle ruote. Una volta infierito sui mezzi di locomozione, sulle mura di cinta e sul fossato del maniero sotto assedio, si occuparono degli abitanti. Inizialmente con piccole e sporadiche incursioni, in un secondo tempo con attacchi più consistenti e sanguinosi. Per i loro assalti utilizzavano petardi, pietre e bastoni, ma la loro arma in più era la voce, le loro urla di battaglia gettavano nel panico intere schiere di api operaie. Quando erano sotto attacco dentro l’alveare non si poteva svolgere nessuna delle normali funzioni quotidiane. Nessuno poteva leggersi un libro, guardare la tv, ascoltare musica o anche solo parlare. Le urla e i rumori degli oggetti sfasciati dalla gang coprivano tutto con il loro gran dispiego di decibel.
La maggior parte degli anziani all’interno dello scatolone decise di eliminare i propri apparecchi acustici. Qualcuno che aveva studiato le strategia di guerra dei ragazzini riusciva anche ad anticiparli, sigillando le finestre con gli avvolgibili e isolandosi dal mondo esterno. Ma si trattava di rimedi inutili o quantomeno blandi e inefficaci. L’attacco andava sempre a segno. Non si poteva fare niente per fermarlo o, se non altro, per attenuarne gli effetti. I minori protetti dalla legge, istigati e armati dai genitori, inebetiti da scuola, tv, reality show e social network, avevano sempre la meglio.
Ma nonostante tutto ciò al numero 20 la vita scorreva abbastanza normalmente, con i soliti problemi quotidiani, il solito olezzo proveniente dai piani bassi, il portone sempre più vacillante sui suoi cardini e qualcuno che proseguiva a collezionare la corrispondenza altrui. Regnava la pace, fondamentalmente. Anche troppo. Nonostante tutto. Nonostante i sempre più frequenti attacchi.

Una domenica sera l’alveare si svuotò completamente, come sempre. Rimase un’unica ape solitaria a presidiare lo scatolone, circondata dal silenzio e dal nulla più assoluto. L’ape non aveva voglia di combattere e i ragazzini se ne resero conto subito e misero a ferro e fuoco tutto quello che si trovava all’esterno delle mura. Il superstite non belligerante lasciò incustoditi i bastioni e si rifugiò nei suoi appartamenti per cercare consolazione nel tepore della stufa. Fuori i rumori e gli schiamazzi facevano pensare più a un’invasione barbarica che non a un manipolo di facinorosi adolescenti. Dentro, però, l’appartamento pareva ancora sicuro, forse non del tutto inviolabile, ma garantiva ancora un minimo di protezione, per il momento.
L’ape provò a distrarsi prima con un libro, poi con la solita scialba televisione, ma non vi trovò alcun conforto. La solitudine si era presentata al suo cospetto nel momento meno opportuno e lui non poteva fare alcunché. 
Poi, d’un tratto, si destò dal torpore, senza comunicarlo nemmeno a sé stesso. Spalancò la finestra tra lo stupore degli assedianti, li puntò contro un dito minaccioso e, subito dopo, mentre loro erano immobili e lo fissavano senza proferire parola, si lanciò di sotto.
I ragazzini che erano si un po’ ebeti ma non troppo, si scostarono mentre l’assediato si lanciava a capofitto sulla loro avanguardia.
Il cranio si aprì in due esatte metà con il contatto sull’asfalto e la materia grigia schizzò fuori a piccoli brandelli che disegnarono un semicerchio intorno al corpo accartocciato. Dalla sua bocca, o da quel che ne restava, non uscì alcun suono, solo un rivolo di sangue. Ma il dito indice della mano destra continuava a puntare dritto sui ragazzini terrorizzati, più convincente di qualsiasi arma.
La banda si dissolse nell’oscurità e il dito finalmente si ripiegò su se stesso, ricongiungendosi con gli altri quattro fratelli inanimati. L’ultimo pezzetto di cervello si staccò dalla calotta cranica aperta e si tuffò sulla pozzanghera di sangue schiumoso che si stava allargando sotto di esso. Ma non c’era più nessuno ad assistere alla scena. Solo il silenzio.


Da quel giorno nessun esercito tentò più l’assedio al numero 20.






3 commenti:

  1. Grazie bro'...ho solo trascritto alcune cose viste tempo fa, né più né meno.

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  2. Grazie per il post! Visto questo video relativo al programma di Cielo tv "Ti aspetto fuori"? Un sacco di boxe! https://www.facebook.com/ideacreativa.it/videos/vb.44762806379/10153678680531380/

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