Lasciate ogni speranza o voi che entrate

Bochesmalas

lunedì 2 febbraio 2015

Caronte


Il proiettile giunse dal palazzo di fronte, entrò nella stanza attraverso la finestra aperta e non incontrò alcuna resistenza, se non quella assolutamente inadeguata e inconsistente di un bottone della camicia. Penetrò nel torace di Bernard e lo abbatté con estrema precisione. Nonostante la mole imponente, e lo spesso strato di grasso, l’uomo non poté fare nulla di più che emettere un flebile lamento e lasciarsi cadere sul pavimento.
Un solo colpo, preciso e mortale. Un sibilo appena percettibile, come un soffio di vento, e quasi 100 chili di carne umana vennero privati della vita.
Il bottone di plastica trasparente si frantumò in tanti minuscoli pezzetti e la camicia candida virò al rosso.
Bernard era un testa di cazzo, né più né meno, e si aspettava qualcosa del genere da un momento all’altro; simili evenienze facevano parte degli optional in dotazione al suo mestiere. Ma non aveva previsto che potesse accadere proprio a casa sua. Non in questo modo, almeno.

Nell’altro palazzo, a circa cinque, seicento metri di distanza in linea d’aria, l’altro, il giustiziere, stava smontando il suo strumento; rimosse il grosso mirino, svitò il silenziatore dalla canna ancora fumante e ripose le parti con estrema cura nella loro preziosa custodia.
Lo chiamavano Caronte - nessuno era a conoscenza del suo vero nome - e questo lavoro lo sapeva fare meglio di chiunque altro.
Il suo mestiere delicato non gli consentiva una vita sociale normale. Era pericoloso il solo pensiero di averne una. Perciò aveva deciso di vivere in assoluta solitudine, come un eremita. 
Tuttavia aveva un carattere forte e deciso e un’intera collezione di differenti personalità; le usava per farsi compagnia e per non farsi corrompere dalle tentazioni del mondo che gli girava intorno, ma anche per non subire passivamente gli effetti collaterali della vita da solitario.
Eppure a vederlo non suscitava nessun timore; era minuto ed esile e aveva modi gentili e un sorriso quasi piacevole. Nessuno poteva immaginare che fosse un assassino di professione. Non ne aveva il fisico, ma questo lo aiutava a passare inosservato e ad allontanarsi dalla scena del crimine senza lasciare dietro di sé alcun ricordo nelle menti approssimative degli eventuali testimoni.
Aveva un vantaggio considerevole verso gli altri esseri umani, in divisa o no: era talmente poco appariscente da risultare quasi invisibile agli occhi distratti della gente frettolosa o in preda al coito da scena del crimine.
Al massimo gli osservatori più attenti potevano scambiarlo per un musicista con il suo strumento dentro la custodia nera. Ma il più delle volte non veniva notato da nessuno. I suoi passi leggeri e il silenzio della sua figura quasi inconsistente erano l’ideale per non imprimersi nella memoria dei suoi simili.
Un ombra.
Con un paio di guanti in lattice in tasca e un fucile di precisione sotto la maniglia ben stretta dalla mano destra.

Lui non provava niente verso le proprie vittime: né odio né compassione. Non si interessava di cosa si occupassero nella vita o se avessero famiglia o no, se avessero un lavoro interessante, una moglie bigotta e noiosa o un harem di giovani fanciulle da distribuire nei marciapiedi della periferia. Non gliene fregava un cazzo. Tanto tutto finiva quando incontravano il suo proiettile.
Spesso si trattava di persone che avevano sfruttato male l’opportunità concessa dall’esistenza terrena; molto spesso erano soggetti che si erano macchiati di crimini inenarrabili.
Ma, in qualche caso, si aveva ritrovato nel mirino anche delle brave persone che non avevano fatto niente per meritarsi le sue attenzioni particolari.
Lui non sceglieva le sue vittime. Erano altri a decidere quale fosse il bersaglio. 
Il suo era un lavoro come un altro; per accettare l’incarico erano sufficienti una fotografia, un indirizzo e un sostanzioso assegno. Niente di più. A tutto il resto ci pensava lui.
Caronte garantiva il risultato finale; il come, il perché e il quando non potevano essere messi in discussione da nessuno. Erano di sua esclusiva pertinenza.
Poteva accettare solo il chi dai suoi clienti.
Ogni professionista, ogni artista, ha le sue manie e questa era la sua. L’unica.
Per il resto non aveva vizi di alcun tipo né abitudini che si potessero definire particolari o fuori dal comune.
Il suo aspetto anonimo, evanescente e indefinibile quasi sempre non lasciava traccia nella retina di chi lo incrociava per strada, ma anche di chi lo ingaggiava per la sua arte.
Non lo conosceva nessuno.
Il suo lavoro gli imponeva una vita da nomade; doveva spostarsi di frequente e velocemente. Perciò possedeva poche cose: il suo fedele fucile, un guardaroba essenziale e minimalista, un paio di libri, tra i quali l’immancabile bibbia, una scatola di guanti in lattice misura M, un vecchio computer portatile e un telefono.
Come un cacciatore doveva seguire le sue prede, non poteva certo pretendere che loro gli venissero incontro. Non poteva prendere ferie né giorni di malattia o riposo quando giungeva la chiamata. Ne valeva del suo buon nome.
Caronte non chiedeva mai. Lui si occupava solo delle risposte. E queste erano sempre esatte.

Quella sera d’estate spirava una leggera brezza. Caronte si sedette accanto alla finestra per cogliere appieno il refrigerio inaspettato. Nel frattempo era intento a contare i proiettili e a lustrare il suo strumento. Non aveva acceso la luce, erano sufficienti i riflessi dei lampioni giù nella strada e il cielo stellato nel quale svettava una splendida luna piena. Del resto il metallo lucido era di per sé una fonte di luce e lui non aveva bisogno di altro.
L’indomani doveva portare a termine un lavoretto facile facile: un vecchio banchiere in pensione abitudinario e lento come un bradipo zoppo.
La preda faceva sempre lo stesso tragitto: casa, edicola, passeggiata al parco con il fido bastone, panchina per leggere il giornale e tragitto verso casa. Sempre alla stessa ora. Preciso e pignolo proprio come un banchiere, un bradipo banchiere.
Non era una preda impegnativa e Caronte poteva stare lì a godersi la brezza serale per tutto il tempo che riteneva necessario, anche tutta la notte. Non aveva fretta. E poi il letto, ancora disfatto dal giorno precedente, non aveva niente da offrirgli.
La notte era lì per lui. Gli piaceva più di ogni altra cosa; facilitava il flusso di pensieri e gli ricaricava le batterie permettendogli di affrontare nel migliore dei modi la successiva giornata. Si trovava a proprio agio nelle tenebre fors’anche perché aveva un grado di parentela molto stretto con la notte. Era figlio della notte.

Lui che era frutto dell’incesto, nato da una donna e un uomo figli dello stesso padre. Dal Caos si generarono i due figli (degeneri) Notte ed Erebo, la notte sulla Terra e la notte sotto la Terra, giù negli inferi. E dal rapporto incestuoso tra questi nacquero una moltitudine di pargoli tra cui lui, lo psicopompo Caronte, traghettatore dell’Ade con l’esclusiva sul trasporto delle anime sull’Acheronte. Non aveva concorrenza.

Con il trascorrere del tempo, degli anni, e con la lista dei caduti per sua mano sempre più lunga, stava iniziando a crederci seriamente. 
Caronte…
Quel nome che rimbombava sinistramente nei suoi timpani quando rispondeva alle chiamate aveva sostituito definitivamente il suo vero nome. Non riusciva a ricordarsi quando era stata l’ultima volta che aveva sentito quel nome da un’altra voce. Erano passati tanti anni ormai, forse secoli.
Per quelli dall’altra parte del telefono lui era Caronte e si occupava del passaggio delle anime.

Dopo essersi abbuffato di pensieri e della notte stessa, questa, la notte, se ne andò e lo lasciò lì, dietro alla finestra, ad attendere l’alba e l’imminente battuta di caccia.
Il fucile era pronto. Era sempre pronto.
Lui pure.
Si vestì senza lavarsi, la brezza della notte aveva deterso la sua pelle.
Uscì di casa senza aver fatto colazione, la notte e i pensieri lo avevano sfamato.
Scivolò velocemente tra la folla che intasava il marciapiede. Quei volti, quelle persone erano invisibili e insignificanti per lui, ma la cosa era reciproca: nessuno incrociò il suo sguardo. Nessuno si accorse di lui.
Arrivò al punto che aveva scelto: un vecchio stabile abbandonato che si affacciava su una stradina secondaria, piccola e stretta, dove il bradipo passava ogni giorno.
Scelse con cura la finestra più adatta e preparò l’arma. Con calma. Aveva per sé tutto il tempo necessario. 
Scostò alcuni calcinacci con il piede e si preparò un sedile con due blocchetti di cemento.
Infine, dopo aver dato un’ultima occhiata all’orologio, soffiò via la polvere, poggiò il bipode del fucile sul davanzale, si piazzò nella direzione giusta, con l’occhio dentro al mirino e il dito indice già pronto sul grilletto. Era solo questione di pochi secondi, ormai. 
Il bradipo zoppo era sempre stato puntuale.
Dieci.
Nove.
Otto.
Sette.
Sei…
E sentì un lieve rumore di pietrisco e passi strascicati alle sue spalle. Non fece in tempo a voltarsi che gli giunse un colpo violento sulla nuca. Il fucile scivolò al di là della finestra e lui non ritrovò più il sedile di fortuna sotto le natiche e cadde con la schiena sopra alle pietre e ai rifiuti. Durante la caduta vide con la coda dell’occhio proprio lui, il bradipo, che sferrava feroci fendenti con il suo robusto bastone dal manico intarsiato. E non si fermò neanche quando Caronte era ormai a terra disarmato. 
Il vecchio sbavava e inveiva all’indirizzo del traghettatore e brandiva il bastone con un vigore e una ferocia inimmaginabili. Era talmente fuori di sé che la dentiera schizzò fuori dalla bocca insieme alle sue urla. E non si rese conto che il suo cacciatore - ora preda - non era più in grado di nuocere: non aveva più il fido fucile tra le mani e, soprattutto, la caduta sui detriti gli aveva compromesso la sua capacità motoria. Infatti Caronte provò a schivare i colpi del vecchio ma i muscoli non rispondevano, le gambe non rispondevano; non riusciva più a muoversi. La sua schiena si era spezzata.
Il bradipo accecato dall’ira non sembrava poi tanto bradipo. Proseguì a colpire il corpo inerme di Caronte sino a quando una bastonata più vigorosa della altre spaccò in due il cranio del malcapitato e cosparse di sangue e materia grigia il mucchio di pietre sul pavimento.


Da quel momento il servizio traghetti sul fiume Acheronte venne sospeso.



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